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Test universitari col trucco Così Tokyo esclude le donne

L'obiettivo era mantenere le «quote rosa» sotto il 30% perché mogli e mamme sono ritenute poco affidabili

Test universitari col trucco Così Tokyo esclude le donne

Il sessismo è un problema globale e un paese storicamente tradizionalista come il Giappone, anche se negli ultimi anni l'emancipazione femminile sta facendo progressi, non fa eccezione. Nel campo della medicina, ad esempio, i giapponesi sembrano non fidarsi molto delle donne: spaventata dalla prospettiva di future assenze per maternità la Tokyo Medical University (un importante ateneo privato) avrebbe falsificato per anni i risultati dei test di ammissione per fare in modo che il corpo studentesco fosse prevalentemente maschile.

A rivelarlo è stato il quotidiano Yomiuri Shimbun, spiegando che la frode sarebbe venuta alla luce mentre la magistratura stava indagando su un altro scandalo: l'università avrebbe infatti alzato il punteggio al figlio di un importante funzionario governativo (che è stato arrestato) in cambio di un finanziamento. Ma evidentemente c'era dell'altro, e da parecchio tempo. Nel 2010 la percentuale di donne che superavano i test d'ammissione era in netto aumento, essendo il gentil sesso arrivato ad occupare il 40% dei posti. E in quel momento, a quanto pare, venne presa la decisione di ridurne la percentuale usando metodi poco ortodossi. Obiettivo: riportarla sotto il 30%. Metodo: abbassare i voti delle candidate.

In realtà anche in precedenza veniva applicata un'altra forma di discriminazione, stavolta palese: se un uomo e una donna ottenevano lo stesso punteggio veniva data la precedenza all'uomo. Niente di strano in Giappone, dove è persino ammesso di fissare le quote di studenti sulla base del genere purché ciò sia fatto alla luce del sole. La colpa della Tokyo Medical University, in questo caso, è anche quella di aver agito segretamente.

Ad ogni modo il risultato era stato ottenuto. A febbraio, nell'ultimo ciclo di ammissioni, su 2.614 domande sono stati ammessi 131 maschi e appena 30 femmine, meno del 18% rispetto al totale. Un impiegato dell'università, che ha chiesto di rimanere anonimo, ha detto al giornale che queste discriminazioni erano viste come «un male necessario», perché l'ateneo voleva assicurarsi di avere abbastanza medici da far lavorare negli ospedali a cui è legato e da questo punto di vista le ragazze non offrono sufficienti garanzie. «Invece che preoccuparsi delle donne che abbandonano il lavoro dovrebbero fare di più per creare un ambiente dove possano continuare a lavorare - ha replicato il capo dell'Associazione giapponese per i medici donne Yoshiko Maeda -. Abbiamo bisogno di riforme che permettano a tutti di svolgere la loro attività indipendentemente dal genere».

Dal canto suo la Tokyo Medical University ha comunicato di essersi rivolta a uno studio legale per avviare un'indagine interna i cui risultati saranno resi noti entro un mese. Ma qualunque sia la verità su questo singolo caso il problema generale resta. Nel 2013 il premier Shinzo Abe in un discorso all'Onu si impegnò a realizzare «una società in cui le donne brillino». Oggi, a distanza di 5 anni, anche se due su tre lavorano lo fanno per la maggior parte con contratti precari, e solo il 10% occupa ruoli apicali.

Di truccare anche le carte, insomma, non se ne sentiva proprio la necessità.

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