Dietro le quinte ci sono incontri, colloqui, conciliaboli. Si prepara la Direzione Pd di domani, per evitare che si trasformi nell'ennesimo show-down interno.
Matteo Renzi sta alla larga dalle sfibranti e - a suo parere - del tutto sterili polemiche su coalizioni, alleanze, centrosinistra con o senza trattino: roba, ripete, «che appassiona solo gli addetti ai lavori e il ceto politico», non l'elettorato. E questo ripeterà anche nella relazione di domani pomeriggio in Direzione, con un discorso che non si allontanerà molto dal canovaccio già sperimentato all'assemblea dei circoli Pd di Milano, sabato scorso, quando Renzi ha liquidato senza rimpianti gli accampamenti tendati di Prodi e le bandiere rosse di Pisapia. Forse i toni, come alcuni dei suoi chiedono, saranno un po' meno duri, per non accentuare la spaccatura con big come Dario Franceschini, che a Milano è stato bersaglio di ironie contro i «capibastone» e i «caminetti di correnti», e che si è molto risentito per le perfide insinuazioni del segretario Pd contro chi si preoccupa solo di piazzare i suoi nelle future liste elettorali.
E a chi, per intorbidire il dibattito interno, fa circolare voci su un Renzi intenzionato a rottamare tutti i big con più legislature sulle spalle, dal Nazareno fanno notare che la norma che limita a tre mandati il percorso parlamentare dei singoli è stata inserita nello Statuto ben prima dell'era Renzi, da altri segretari: sarà fatta valere con gli stessi criteri di sempre, che lasciano la possibilità di motivate deroghe allo statuto. Del resto, fanno notare i renziani, fu Pierluigi Bersani, allora leader del Pd, a decidere di non ricandidare dirigenti del calibro di D'Alema e Veltroni.
Batte in ritirata anche Michele Emiliano: aveva promesso fuoco e fiamme contro l'«invotabile» decreto sulle banche venete, ma i suoi sono prontissimi a votarlo.
Oggi, Bersani e D'Alema si ritrovano insieme nel partitino scissionista Mdp, che sta cercando di accreditarsi come polo della sinistra anti-Renzi (working title: Insieme), spingendo Giuliano Pisapia a farsene leader, ma con loro due a dare la linea. Le cose, però, non sembrano decollare come sperato, e delle sigle di sinistra presenti in Parlamento, nessuna (tranne, forse, il singolo Pippo Civati) pare intenzionata a salire sul carro guidato da D'Alema e Bersani. Da Cagliari Massimo Zedda, collega sindaco «arancione», come Pisapia, lo invita a separare il suo destino da quello dei rancorosi ex Pd: «A Giuliano dico di non farsi tirare per la giacca per andare a una rottura con il Pd».
A liquidare i vagheggiamenti prodiani (e franceschiniani) di «larghe coalizioni» con la sinistra ci pensa il presidente del Pd Matteo Orfini, che definisce l'ipotesi «surreale»: «Nessuno, in Europa, chiederebbe al più grande partito del centrosinistra di occuparsi di altri soggetti più o meno alternativi», fa notare. E poi, col proporzionale vigente, ognuno corre per sé: «Le coalizioni non sono previste».
Opinione condivisa dal successore di Pisapia, Beppe Sala: «Non ci sarà alcuna intesa tra Pd e Insieme». Quanto a chi (come Orlando) accusa il Pd di volersi alleare con Berlusconi, Orfini ricorda: «Quelle larghe intese vennero fatte nel 2013: con Orlando ministro, Speranza capogruppo e Letta premier».
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