Un'Europa libera dal rigore per vincere crisi e populismi

Bisogna tornare al primo Trattato di Maastricht: stop a vincoli e misure restrittive per chi sfora i «paletti» di stabilità. Altrimenti estremismi e speculazione avranno il sopravvento

Un'Europa libera dal rigore per vincere crisi e populismi

I leader del G7 si sono accorti all'alba di giovedì scorso che l'economia mondiale è in pericolo. Che i populismi sono ormai realtà in sempre più Paesi, che fra meno di un mese la Gran Bretagna rischia di uscire dall'Unione europea e che un'eventuale elezione di Donald Trump negli Stati Uniti potrebbe avere effetti ad oggi non immaginabili.

Quel che inquieta è che ci sono altri rischi incombenti che, invece, sono stati tralasciati: la presidente della Federal Reserve, Janet Yellen, ha dichiarato che la banca centrale americana tornerà a breve ad aumentare i tassi di interesse sui titoli del debito sovrano Usa, spiazzando gli investitori che, al contrario, avevano scommesso sul fatto che sarebbero rimasti invariati almeno fino alla fine dell'anno, e il crollo in borsa di Apple e delle altre aziende della Silicon Valley potrebbe rappresentare l'inizio dello scoppio di una nuova bolla finanziaria. I mercati sono disorientati e nervosi. Così come i grandi leader del mondo. E quel che è grave è che la situazione può solo peggiorare, perché coglie tutti di fatto impreparati. L'Italia più degli altri. Perché piuttosto che mettere in sicurezza i conti pubblici e fare riforme che cambiassero davvero il paese per farlo funzionare come si deve, negli ultimi due anni si è perso tempo, sperperando risorse a fini elettoralistici e di acquisizione clientelare del consenso.

Riproponiamo a Renzi la nostra ricetta economica, sperando in extremis, per una sorta di istinto di sopravvivenza, voglia farla propria.

1 Innanzitutto il debito: la palla al piede del nostro paese. Fino a quando non cominceremo a ridurlo, continueremo ad avere tassi di crescita del Pil pari a zero o di poco maggiori di zero, tassi di disoccupazione altissimi, e un servizio del debito che succhia risorse che potrebbero essere destinate ad altro. Un piano di attacco al debito Renzi non ce l'ha. Noi sì, per portarlo sotto il 100% in rapporto al Pil in 5 anni.

2 La pressione fiscale. Troppo alta: riduce il reddito disponibile delle famiglie, che non consumano e non fanno figli, e priva di liquidità le imprese, che non investono e non assumono. Sul piano del fisco i temi sono due: ridurre le aliquote e semplificare le regole. La risposta è una: Flat tax, vale a dire aliquota unica per tutti, pur garantendo la progressività del sistema fiscale.

3 Liberalizzazione delle Public Utilities e sburocratizzazione. Sul primo punto: adeguamento della normativa nazionale ai dettami europei. Nel rispetto dei principi di concorrenza si rende sempre più impellente la necessità di introdurre una previsione per la quale gli Enti locali siano tenuti a verificare la realizzabilità di una gestione concorrenziale dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, liberalizzando tutte le attività. In tema di sburocratizzazione e digitalizzazione della PA, le norme esistono già, la ministra Madia dovrebbe solo decidersi a implementarle. Parliamo della fatturazione elettronica; della prescrizione medica digitale; dei pagamenti elettronici; della giustizia digitale; della didattica digitale; dell'integrazione dei documenti di identità digitale; dello sviluppo delle «Smart cities»; del consolidamento dei data center. Scusate se è poco.

4 E poi c'è sempre più bisogno di un'Europa nuova: della crescita e del benessere, e non della deflazione e della disoccupazione. Un'Europa pienamente inserita nell'Occidente, ma capace di dialogare anche con l'Oriente, senza dover soccombere di fronte agli interessi geo-politici e commerciali di chicchessia.

Proprio per questo siamo per tornare al primo, vero Trattato di Maastricht del 1992 e buttare a mare il Patto di Stabilità che lo ha modificato nel 1997. Tornare a Maastricht significa recuperare la lezione di Guido Carli. Fu su proposta dell'allora ministro del Tesoro, infatti, che nel testo del Trattato fu inserita una clausola che consentiva agli Stati che non rispettavano i «paletti» di Maastricht di realizzarli non attraverso un piano di rientro a tappe forzate con misure restrittive e controproducenti, bensì adottando politiche virtuose che comportassero miglioramenti progressivi. Il Patto di Stabilità del 1997 ha cambiato proprio questo punto fondamentale del Trattato, inviso ovviamente ai tedeschi in quanto contrario alla loro dottrina calvinista e alla loro ossessione per l'inflazione.

Così facendo, è stato dato un segnale alla speculazione e ai mercati, che si sono scatenati a scommettere sulla prevedibilità del non rispetto di quei «paletti». Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. È ora di tornare all'Europa vera, solidale, illuminata, lungimirante, della crescita, vincendo così anche i populismi e gli estremisti. Sì alla genialità di Maastricht, ma basta agli egemonismi e ai ricatti tedeschi. Se faremo tutto questo, i mercati ci premieranno. Avremo un'Italia e un'Europa più forti, in grado di affrontare le sfide e le difficoltà più grandi. Ex malo bonum: partiamo dal grido di dolore dei grandi del mondo che si sono riuniti in Giappone per ridisegnare il futuro. O ne saremo travolti.

Mi rendo conto che l'auspicio sincero che Renzi faccia suo questo programma significa adottare il motto di San Paolo: spes contra spem. I comportamenti del premier, ahinoi, dicono altro. Lo si vede da come sta affrontando il tema del referendum di ottobre. Il suo programma è di emergere come Posidone dalla tempesta, a costo di far sprofondare Atlantide. Il sì di Confindustria alle riforme contribuisce a chiarire il quadro delle forze in vista del referendum. E consente a Stefano Folli su Repubblica di ricavare che «il Sì rappresenta se stesso come un fronte compatto, fondato su una chiara gerarchia: un leader politico che non disdegna di essere solo contro tutti e una serie di collaboratori che replicano uno schema fisso. Dall'altro c`è un esercito raccogliticcio e frammentato». La rappresentazione di Folli spiega da una parte lo sciagurato lavoro di spaccatura profonda imposto da Renzi al Paese, ma dall'altra la sua separatezza dal popolo, e dunque alla fine il perché della sua sconfitta.

Infatti la leadership compatta del «Sì» si riduce alla fine ai renziani. I renziani se fatti coincidere con il Pd sono il 30%. Il centro alfaniano-verdiniano vale il 3%. Dall'altra parte ci sono tutti gli altri. Facendo una media anche qui dei dati forniti dai vari istituti di ricerca il centrodestra unito, unitissimo in questa battaglia, vale il 31%, il M5S il 27, la sinistra di Sel il 6%. Poi ci sono frammenti variamente dislocabili. Ma da questo quadro vediamo che è abbastanza facile capire perché il «Sì» è coeso: c'è solo lui, Renzi, premier-segretario. Dall'altra parte ci sono posizioni che per ragioni storiche e ideologiche non possono fare massa organizzata in questa battaglia.

Dal punto di vista sociologico, il quadro è ancora più drammatico per Renzi e il fronte del «Sì». Infatti stanno con Renzi i poteri forti ma vecchi, si direbbe che con lui stanno i veri conservatori, le espressioni fruste delle varie oligarchie che hanno individuato il carro per far valere i loro interessi con un governo che non ha vergogna a praticare voti di scambio sfacciati.

Si tratta a questo punto di prendere coscienza di un compito, che coincide con la sola speranza degli italiani.

Sono i moderati, è Forza Italia in alleanza non solo con la destra ma con il civismo del «quarto petalo», a doversi assumere la missione di allacciare rapporti che vadano al di là della battaglia referendaria (da vincere) con i colletti blu, con le classi che più patiscono la crisi, che è in sostanza il ceto medio che ormai non è più medio, ma con Renzi viene schiacciato in basso. Si può risorgere, l'Italia può farcela. Anche se i grandi del mondo non ci vogliono bene, magari grazie proprio ai comportamenti opportunistici autoritari e populisti del fiorentino.

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