"Urne nel 2018, senza di me". Bluff di Renzi per tenersi il Pd

L'ex premier finge di accontentare fronda e avversari: potrei non candidarmi. E apre al premio di coalizione

"Urne nel 2018, senza di me". Bluff di Renzi per tenersi il Pd

L'obiettivo, assicurano i suoi, resta lo stesso: votare a giugno (con la crescente convinzione che sarebbe folle perdere l'occasione di prendere in contropiede un Movimento Cinque Stelle ridicolizzato dal surreale caso Raggi), restare in sella al Pd e da lì provare a dare le carte del prossimo governo.

Ma gli ostacoli su questa strada, come Matteo Renzi ha capito nell'ultima settimana, sono giganteschi, le resistenze contro di lui - fuori e dentro il Pd - sono feroci, la gara ad impallinarlo è scatenata. Il Pd è in piena implosione, con la vecchia guardia bersanian-dalemiana ossessionata dall'idea di dare il colpo di grazia all'«usurpatore» per riprendersi la Ditta (anche a costo di farsi un partitino in proprio) e le correnti scatenate in una sorta di liberi tutti.

Ecco allora che l'ex premier prova a disarmare i suoi tanti nemici mettendo sul tavolo ogni opzione: primarie ma anche congresso («Io volevo farlo a dicembre, ma gli stessi che ora lo invocano me lo hanno impedito», dice con chiaro riferimento a Bersani e compagnia), voto a giugno ma anche nel 2018 («Si vuole andare avanti? Siamo pronti, se si ritiene che serva»), premio di maggioranza alla lista oppure alla coalizione. Persino la propria testa: «La prossima volta il candidato premier potrei non essere io. Magari potrebbe toccare ancora a Paolo Gentiloni, o a Graziano Delrio». Anche perché, dice in un'intervista al Corriere della Sera, «lo scenario della prossima legislatura imporrà probabilmente governi di coalizione».

A muoversi, nel marasma Pd, è il gran democristiano Dario Franceschini, che mette sul piatto la mediazione sulla legge elettorale: il premio di coalizione al posto del premio alla lista, ipotesi già adombrata anche dal ministro Graziano Delrio. Sembra il richiamo del pifferaio di Hamelin: applaudono entusiasti il centrodestra e Bersani, Alfano e Pisapia. Renzi sta a guardare in silenzio, ma parla Matteo Orfini, e si dice «contrarissimo» a quella che vede come una «fuga all'indietro», un ritorno alla stagione prodiana, col governo ostaggio dei «cespugli» e dei loro ricatti: «Sarebbe un pastrocchio».

La dura opposizione di Orfini, presidente Pd, lascia intendere che anche Renzi non sposa incondizionatamente l'operazione. Che certo garantisce i numeri in Parlamento per fare la legge elettorale, ma apre anche la strada a mille giochini e trappole per allungare i tempi e scavallare la deadline di aprile, necessaria per votare a giugno. Nella minoranza Pd, del resto, c'è già chi spiega ridendo sotto i baffi che «nei voti segreti sulla legge elettorale verranno fuori altro che i 101 di Prodi», a far muro contro una rapida approvazione. Dunque di premio alla coalizione si potrebbe anche ragionare, ma solo in cambio di tempi certi per varare le nuove regole elettorali attraverso la modifica dell'Italicum.

Per lunedì 13 febbraio è previsto un primo showdown nel Partito Democratico: la Direzione non è ancora stata convocata ufficialmente, ma viene confermata dal Nazareno. E lì dovrebbero essere messe le carte in tavola, sulla legge elettorale, sui tempi e sulle scadenze interne.

Renzi ha già aperto a primarie prima del voto, e i sondaggi che circolano lo danno stravincente contro tutti gli avversari interni. Intanto, l'ex premier prepara nuove uscite nel weekend sul tema dei rapporti con l'Unione Europea.

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