L'operazione «eliminare Renzi» da ieri è ufficialmente partita. La divulgazione delle intercettazioni tra l'ex premier e suo padre tramite Il Fatto Quotidiano non ha molte altre spiegazioni plausibili. E, d'altronde, non è nuova nella storia politica italiana contemporanea la strategia di mascariare (in siciliano «tingere di nero», cioè ledere la reputazione con il sospetto) un avversario politico che non si riesce a battere per via democratica, soprattutto dopo che il segretario del Pd si è rimesso in gioco dopo la batosta del referendum stravincendo le primarie.
I nemici hanno sfruttato un punto debole del leader. Renzi, infatti, non gode di nessun tipo di immunità: né di quella formale derivante dallo status di parlamentare né di quella informale derivante dal ricoprire una carica istituzionale. I magistrati possono perciò non preoccuparsi di eventuali autorizzazioni all'utilizzo delle intercettazioni sebbene questa forma di tutela dei componenti delle due Camere sia stata spesso trascurata.
Ecco perché la vicenda attuale di Matteo Renzi ha molto in comune con quella di Silvio Berlusconi. Entrambi sono stati oggetto delle attenzioni invasive da parte della magistratura la cui attività investigativa ha cercato di minare il rapporto di fiducia tra la leadership e l'elettorato. L'altra similitudine è l'attacco concentrico: il sistema renziano è oggi indebolito dalle polemiche sulle crisi finanziarie delle banche toscane (Monte dei Paschi, Banca Etruria e infine Chianti Banca). L'iperattività inquisitoria nei confronti del Cavaliere, invece, è cosa nota. Ancora una volta, dunque, è l'ordine giudiziario a destabilizzare un assetto politico traballante: nel maggio 2017 per via dell'impasse istituzionale sulla legge elettorale e sulle prospettive di governabilità, nell'autunno del 2011 a causa dell'impennata senza precedenti dello spread.
E proprio nel settembre 2011 partì l'affondo del Fatto contro il Cavaliere allorquando pubblicò un'intercettazione coperta da omissis tra Berlusconi e l'imprenditore Gianpaolo Tarantini. Il quotidiano oggi diretto da Marco Travaglio svelò perfino la parte pecettata ipotizzando che in quelle righe il premier avesse inveito contro la cancelliera tedesca Angela Merkel definendola «culona inch...». Nel 2015 quando tutti i faldoni dell'inchiesta barese furono pubblicati quella trascrizione non compariva. La situazione di Renzi è analoga perché la telefonata tra il segretario e il padre pubblicata dal fatto risale al 2 marzo di quest'anno e poco più di due mesi dopo è stata divulgata nel libro di Marco Lillo Di padre in figlio del quale il Fatto ha anticipato il contenuto. L'intercettazione, pur non ancora trascritta, è stata stampata in migliaia di copie. Ragion sufficiente per ritenere che o i magistrati o i loro collaboratori l'abbiano fatta trapelare.
La barbarie mediatica, fomentata dalla magistratura, non impedisce tuttavia di ragionare sul contenuto e sulle motivazioni che abbiano potuto spingere Renzi a telefonare al genitore. Indubbiamente era preoccupato delle ricadute dell'intervista a Repubblica, pubblicata il 2 marzo, nella quale il commercialista Alfredo Mazzei rivelava di sapere dell'incontro tra Tiziano Renzi e Alfredo Romeo, l'imprenditore napoletano interessato ad aggiudicarsi un lotto del maxiappalto Consip sul facility management degli edifici pubblici.
Probabilmente Renzi sapeva che il babbo era intercettato e la telefonata era un modo per ribadire la propria estraneità ai fatti. In uno Stato, che si fonda non sul diritto ma sul rito inquisitorio, l'autodafé è l'unico modo per dirsi innocenti.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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