Prega rivolto verso La Mecca: «Mamma, in classe lo fanno tutti»

MilanoQuando ha visto suo figlio inginocchiarsi in mezzo alla sala da pranzo, le braccia lungo il corpo e la fronte che appena sfiorava il pavimento, quasi non ci voleva credere. Nello smarrimento, ha aspettato un istante prima di domandare al bimbo cosa stesse facendo. Poi lui, l’ha preceduta. «Guarda mamma, ti faccio vedere una cosa. Ti faccio vedere come pregano i miei compagni a scuola quando c’è il Ramadan». Milano, quartiere San Siro, il cosiddetto «quadrilatero degli stranieri», dove la percentuale di immigrati sfiora il 90 per cento dei residenti. Qui, a pochi isolati dall’abitazione di Mohamed Game, il libico che lunedì 12 ottobre si è fatto saltare in aria all’ingresso della caserma Santa Barbara, c’è la scuola elementare Luigi Cadorna in via Dolci, la stessa che frequentano anche i tre figli del kamikaze. Un cartello appeso al cancello dell’istituto con una scritta in arabo a ricordare che da queste parti la maggioranza degli iscritti sono proprio loro e il capo delle mamme coperto dal velo mentre aspettano i piccoli all’uscita. In queste aule gli italiani come mamma M. e suo figlio F., nove anni, ormai sono un pugno di mosche bianche, una minoranza in mezzo a una «babele» di etnie e nazionalità. Mischiati a tal punto da imitarne usanze e costumi, e persino le preghiere.
«Però mio figlio è italiano, mica musulmano. E vederlo con le mani giunte e a pancia in giù, che prega... Insomma, ma perché queste cose non vanno a farle a casa loro, invece che in una scuola pubblica?», sbotta la signora M. È passato un anno da quel pomeriggio, ma se lo ricorda ancora come se fosse oggi, la voce che si spezza dalla rabbia e più di tutto dalla preoccupazione. «Si rende conto che è successo a scuola?». Il bambino non c’entra niente, in fondo che colpa ne ha: l’ha visto fare ai suoi amichetti durante l’intervallo, quando la maestra non c’era. I compagni che si inginocchiano in mezzo all’aula prima di mangiare la merenda, imitando un gesto visto chissà quante volte dai propri genitori. E così aveva fatto anche il piccolo F., tutto qui. Come fa lui a sapere cosa rappresenta quella preghiera, cosa ne sa lui di quello che vuol dire islam, religione, fanatismo, attentato? Niente. Ma sua madre sì, eccome. E per questo ha paura, a maggior ragione dopo l’attacco del libico della settimana scorsa.
Guai se rivedesse di nuovo il suo bambino in mezzo alla sala in quella posizione. «Gli ho detto di alzarsi immediatamente e di non fare più certe cose». Racconta mamma M. di averne anche parlato con l’insegnante di religione. «Le avevo fatto presente che mio figlio era italiano e non musulmano». Pazienza se magari nel programma era previsto anche lo studio di culture e religioni diverse. Pazienza. «Noi siamo in Italia. Ma che, stiamo scherzando? Non esiste. Se fosse accaduto un’altra volta, avrei tolto mio figlio dalla scuola. E poi, perché dobbiamo sempre essere noi a seguire la loro religione e non il contrario?».
Sospira e si chiede quale sarà il prossimo passo, dopo la proposta di inserire l’ora di religione islamica a scuola. «Sono matti. Ecco cosa sono. E a me questa situazione non piace per niente. La rifiuto. Ma dove siamo arrivati? Ora mi pare che stiamo esagerando un po’, o no?». Va bene, sono bambini e loro non c’entrano niente in tutta questa storia. Ma un limite dovrà pur esserci, e il nostro credo è quello cattolico e non quello che invoca Allah. «Ognuno è libero di pensare e fare quello che vuole, e io sono libera di esprimere la mia opinione sul fatto che questa faccenda non mi sta bene». Non le sta nemmeno così bene l’idea che nella scuola di suo figlio siano iscritti i figli dell’attentatore libico. Per carità, nulla da dire sui piccoli, che anzi sono le vere vittime di questo fatto sciagurato e non hanno nulla a che vedere con il padre. «Ma chi ce lo dice che la prossima volta non verranno proprio qui a mettere una bomba?».
F.

ora è un ometto, frequenta l’ultimo anno delle elementari, tra qualche mese questa scuola per lui sarà solo un ricordo. Chissà se vedrà ancora i suoi compagni di classe, Ahmed, Ismael, Mahmud. Chissà se si ricorderà ancora di quelle preghiere imparate tra i banchi di scuola.

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