Il premier sul Colle: «Ha l’ultima parola, governo senza poteri»

RomaNel bel mezzo del guado parlamentare in cui s’è infilato il Milleproroghe - con strascichi piuttosto coloriti all’intero non solo del governo ma anche della maggioranza - il buon umore del Cavaliere tiene solo grazie alle notizie che arrivano dal pallottoliere su cui lavorano da settimane Denis Verdini e Daniela Santanchè oltre che da alcuni segnali incoraggianti che rimbalzano in giornata dalla Santa Sede.
Già, perché fosse solo per il maxi-decreto finito martedì nel mirino del Colle e ieri nel caos più totale Berlusconi avrebbe davvero ben poco di cui sorridere, alle prese con quello che lui stesso definisce «un vero e proprio assalto alla diligenza» visto che ormai da tempo il Milleproroghe è una sorta di Finanziaria bis all’interno della quale finisce di tutto e di più. Insomma, è chiaro che un minuto dopo che Fini ha letto la lettera in cui Napolitano invitava a rivedere il testo del decreto è partito il prevedibile valzer di pressioni per evitare di finire nell’annunciata sforbiciata. Tutte richieste girate direttamente a Palazzo Chigi nonostante Berlusconi abbia lasciato quasi carta bianca a Tremonti. E qui sta il punto, perché il Cavaliere non sembra abbia affatto gradito il richiamo del Colle e il fatto che il ministro dell’Economia non glielo avesse in qualche modo annunciato. Con una novità, visto che questa volta anche la Lega non sembra averla presa affatto bene. In particolare il presidente della commissione Bilancio Giancarlo Giorgetti, venuto a conoscenza delle perplessità del Quirinale in tempo reale. E che il segretario della Lega Lombarda nel Carroccio sia un carico da novanta non è un mistero.
Così, ci sta che intervenendo agli Stati generali di Roma Capitale Berlusconi si torni a lamentare dei limitati poteri di un governo a cui «rimane solo il nome e l’immagine del potere». «Di decreti - aggiunge - non ne parliamo più perché devono avere un consenso totale. Insomma non sono più nella nostra disponibilità visto che ci vuole la firma del capo dello Stato». Una situazione, spiega il premier, che rende impossibili le riforme perché i provvedimenti del governo debbono passare alla firma del Quirinale e poi vengono profondamente modificati dal Parlamento e così un testo varato dal Consiglio dei ministri da «focoso destriero purosangue» si trasforma in «ippopotamo».
Le buone notizie, invece, arrivano dalla war room di via dell’Umiltà. Dove le tabelle nelle mani di Verdini e Santanchè (aggiornate al 21 febbraio) dicono che alla Camera la maggioranza è ora a quota 321 (228 Pdl, 59 Lega, 29 Responsabili e 5 del Misto). Non ci sono più problemi, dunque, nelle 14 Commissioni permanenti, salvo quella Esteri (l’unica dove il centrodestra è sotto di uno). E se si arrivasse alla fatidica soglia di 324 probabilmente si risoverebbe anche il problema in ufficio di presidenza (quello, per capirci, che dovrebbe dare il via alla richiesta di conflitto di attribuzione rispetto alla competenza del tribunale di Milano sul caso Ruby).

Ma a contribuire al buon umore del Cavaliere c’è anche la netta presa di posizione del vescovo Luigi Negri che ha toni durissimi proprio nei confronti della magistratura: «È lei ormai a fissare le regole senza alcun argine nell’apparato statale. Non si era mai vista una magistratura muoversi con la prepotenza con cui lo sta facendo oggi». Un segnale, dicono a Palazzo Grazioli, di un cambio di rotta da Oltretevere.

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