IL PRESTIGIO PERDUTO

Forse è troppo presto per fare un bilancio. Non lo è, sfortunatamente, per verificare una linea di tendenza. Quella del governo Prodi negli affari internazionali. Che non è una linea ma una serie di punti che, a collegarli, non danno alcun disegno. Il risultato è la stasi in un campo in cui essa è inconcepibile. Dalle urne di aprile è uscita una «coalizione» che non è tale bensì una somma di no. Son bastati meno di due mesi per confermare che fra le molte sinistre e lo scarso centro della équipe di Romano Prodi non c’è un filo conduttore. In molti campi, ma meno che mai nella politica estera.
Che non è fatta di cifre aggiustabili o camuffabili, ma di iniziative, che dovrebbero essere chiare, e soprattutto, per esserlo, poche. Il governo Berlusconi le aveva e le ha portate avanti con coerenza. Si era scelto dei traguardi, non tutti facili, ma identificabili. Si era posto degli obiettivi per migliorare o solidificare, con iniziative magari discusse, ma chiaramente tracciate, i rapporti con quattro Paesi: gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, Israele, la Russia. Nel primo caso si trattava di ristabilire una priorità che aveva accompagnato tutto il cammino dell’Italia post bellica, in una situazione di emergenza nata dalla preminenza del problema del terrorismo. Dentro all’Europa una serie di scelte si imponeva, in parte determinate dal rapporto con l’America e dunque portate a premiare le relazioni con la Gran Bretagna, dalla solidarietà politica prima ancora che militare, in Irak e in Afghanistan ma riflettente anche «gusti» condivisi nell’approccio ai tempi difficili che attraversa l’Europa. Israele era una conseguenza: il riconoscimento di un impegno morale che, come accade più spesso di quanto molti riconoscano, è anche fruttifero sul piano pratico. Le missioni di Fini a Gerusalemme avevano dato all’Italia un ruolo preferenziale, magari anche scomodo ma nobilitante. Quello con la Russia, infine, era una scelta eminentemente pratica, in primo luogo economica (più saldi i rapporti con Mosca meno dipendente l’Italia dall’esplosivo Medio Oriente) ma anche una «scommessa» sul futuro politico di una grande potenza e sul suo ruolo in un quadro europeo allargato.
Tutte queste conquiste, soprattutto quelle rimaste a metà perché è mancato il tempo di portarle a compimento, sono ora per aria senza che, ed è altrettanto grave, ne siano state tentate di nuove. Che il «rapporto preferenziale» con Washington sia raffreddato se non incrinato era inevitabile: un governo frutto di una maggioranza che per quasi tre quarti è di sinistra non può non risentire degli orientamenti, sentimenti e risentimenti, delle sue componenti radicali. Se sul ritiro delle nostre truppe dall’Irak c’è una sostanziale unanimità nello schieramento governativo (pur con sostanziali variazioni di tono, alcune delle quali dannose), il problema si presenta assai più acuto quando si passa a trattare dell’Afghanistan. Non perché sia immediato un ritiro ma perché la presenza, messa continuamente in discussione, perde valore e significato, a danno nostro. Il problema Medio Oriente è un esempio ancora più evidente: il «cuore» di gran parte dei partiti della coalizione di Roma batte per i palestinesi e ciò si riflette nelle azioni e soprattutto nei toni.

Quanto alla Russia essa si trova relegata, nonostante la apparente cordialità del primo incontro fra Prodi e Putin, in fondo alla nostra scala di priorità. Tutto ciò in cambio di cosa? Non di una nuova scala di priorità elaborate ma di buone intenzioni. Il recupero delle pacche sulle spalle da Jacques Chirac non è una politica.

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