Cultura e Spettacoli

Il professore che stracciò le veline

Il 10 giugno 1940 Mussolini annunciava l’entrata in guerra dell’Italia. Ma lo storico Gioacchino Volpe si rifiutò di suonare le fanfare del regime

Il professore che stracciò le veline

Il 10 giugno 1940, dal balcone di Palazzo Venezia, Mussolini annunciava l’entrata in guerra dell’Italia davanti a una massa plaudente. La visione aerea dell’adunata oceanica, ossessivamente proiettata dai cinegiornali, forniva l’immagine di un popolo graniticamente unito al suo capo nel comune sforzo bellico. Una ripresa più ravvicinata avrebbe mostrato tra la folla, volti inquieti, preoccupati, sgomenti. Era quello il ritratto dello stato d’animo effettivo della maggioranza degli italiani, che il ministro degli Esteri Galeazzo Ciano registrava nel suo diario: «La notizia della guerra non sorprende nessuno e non desta eccessivi entusiasmi. Io sono triste, molto triste. L’avventura comincia. Che Dio assista l’Italia».
Il nostro Paese entrava male nella nuova guerra, turbato soprattutto dalla scelta dell’alleato, verso il quale radicati erano i sentimenti di malcelata ostilità e fortissima diffidenza, non soltanto presso la massa del popolo minuto, come ha mostrato il documentatissimo volume di Piero Cavallo, Italiani in guerra. Sentimenti e immagini dal 1940 al 1943 (Il Mulino, 1997). Quella sensazione era condivisa da alcuni dei massimi esponenti del regime: Dino Grandi, Italo Balbo, Carlo Delcroix, il «grande invalido» della Grande Guerra, che aveva incarnato per decenni la continuità tra l’Italia di Vittorio Veneto e quella della Marcia su Roma. Ma ora il filo di quella continuità sembrava essersi spezzato. Sordo ma insistente, il mugugno contro la presa d’armi cresceva nelle vie, nei luoghi di ritrovo, nei circoli privati. Rimbalzava nei corridoi del Senato, della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, nelle stanze dei ministeri romani, dove ancora Ciano aveva annotato nelle sue carte segrete: «Il popolo italiano non vuole battersi con la Germania per dare a lei quella potenza con cui un giorno lo minaccerà».
L’apparato propagandistico del regime reagiva a questo stato di fatto, mobilitando stampa, radio, filmati. La guerra doveva essere combattuta anche con le risorse di una pedagogia di massa che vedeva schierati in prima fila i «maestri della nazione»: gli intellettuali. Tra questi, Gioacchino Volpe, etichettato sprezzantemente da Salvemini come lo «storico ufficiale del fascismo», che, nel novembre del ’39, aveva pronunciato uno scialbo discorso, alla sede romana dell’Eiar, sulle «ragioni imminenti della nostra guerra». Colui che fin dall’affare di Corfù del ’23 aveva elogiato la muscolosa politica estera mussoliniana, appariva ora decisamente impari al compito assegnatogli, con un intervento intessuto di troppi «se», «ma», «forse», di troppi dubbi che si sarebbero ingigantiti con lo svolgersi degli eventi.
L’ingloriosa campagna contro la Francia e il disastro della guerra di Grecia provocava in Volpe una sbalordita reazione sull’incapacità di quell’esercito che si era creduto «preparatissimo» e la cui cattiva prova ormai induceva a «dubitare di tutto quello che abbiamo creduto». Era lo sfogo di una conversazione privata che si sarebbe presto tramutata in una presa di posizione pubblica, con la lettera indirizzata al segretario del Pnf, Adelchi Serena, nel maggio del 1941, dove si insisteva sulla necessità che l’Italia non assumesse nel conflitto un ruolo gregario nei confronti dell’alleato nazista. «I frutti della guerra saranno per noi in rapporto del contributo che avremo dato alla vittoria comune», sosteneva Volpe. E aggiungeva: «La realtà vera e permanente è rappresentata non dal così detto Asse, ma dalla Germania da una parte e dall’Italia dall’altra. Ora, se il nostro contributo sarà piccolo e non grande. Se la guerra noi la vinceremo, in tutti i settori, più che altro in virtù dell’alleato germanico, i frutti di questa vittoria saranno piccoli e nessuna comunanza ideologica fra noi e gli alleati farà che essi siano grandi».
Era la schietta condanna della «guerra parallela» di Mussolini, che ormai appariva sconfitta sul piano militare come su quello diplomatico. Nell’estate del ’43, reduce da un discorso di propaganda a Zagabria, capitale di quel regno di Croazia che governato con il sangue e con il terrore da Ante Pavelic era stato attribuito «nominalmente» a Aimone di Savoia-Aosta, Volpe scriveva al nuovo segretario del partito Carlo Scorza che meglio sarebbe stato non compromettere la casa regnante nel rischioso labirinto della politica balcanica. Con questa affermazione, uno dei più illustri intellettuali del regime sembrava voler scindere le sue responsabilità non solo dagli intrighi internazionali del fascismo, ma anche dal sistema di potere di Mussolini. Quel sistema rischiava di essere condannato dal tribunale della storia, aveva confessato Volpe a un importante consigliere nazionale del Pnf, ricordandogli, già nel luglio del ’41, che «ormai, con la guerra, abbiamo il vero collaudo del fascismo come di tutti i regimi autoritari e totalitari; e che, se il collaudo fallisse, tutti noi saremo falliti, fascismo e fascisti».
Eppure, anche di un così incerto sostenitore, l’imperfetto totalitarismo italiano aveva bisogno, per controbilanciare l’effetto delle catastrofi d’Africa, di Russia, di Sicilia. Dopo un lungo esilio dal Corriere della Sera, lo storico era frettolosamente richiamato in servizio con il compito di esaltare quella «guerra fascista», che ormai pochi consideravano guerra patriottica e nazionale. Il rimedio si sarebbe però rivelato peggiore del male. Nel luglio del ’43, Volpe inviava un articolo dove si sosteneva che «la guerra italo-inglese aveva poco a che fare con il fascismo: era, è una conseguenza quasi automatica del crescere dell’Italia, e del suo bisogno di spazio in Africa e di un minimo di potenza nel Mediterraneo». Il pezzo veniva cestinato. Di quella eventualità Volpe era d’altra parte ben conscio. Scrivendo al direttore Aldo Borelli, lo storico aveva infatti dichiarato di non voler unire la sua voce all’ormai stonata fanfara propagandistica. Il credito della stampa italiana, aggiungeva, era crollato insieme a quello del regime che invano aveva tentato di puntellare. L’una e l’altro erano restati sepolti sotto un cumulo di menzogne, continuava la lettera, che si chiudeva con un duro atto di accusa contro il sistema dell’informazione italiana: «Quante sciocchezze ci ha raccontato! Di quante illusioni ci ha nutrito! A quanta supervalutazione e sottovalutazione delle forze nostre ed altrui ci ha abituato! Quando abbiamo i nemici in casa e ci vorrebbero quei cannoni che non abbiamo, quegli aeroplani che non abbiamo, quei generali che hanno fatto tanto difetto, quei capi nei quali non abbiamo più gran fede, quell’Italia morale senza la quale non si costruisce grandezza o solo effimera!».


eugeniodirienzo@tiscali.it

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