Nel corso del 2010 22 milioni e 403mila persone sono andate al pronto soccorso. Nel 2011, 22 milioni e 36mila. L'anno successivo, 20 milioni e 892mila. Nel 2013 gli utenti delle strutture di emergenza-urgenza sono stati 20 milioni e 551mila. Per il 2014 il ministero della Salute, su specifica richiesta, risponde che «i relativi dati sono ancora in corso di verifica», ma è possibile ricavare il numero sommando gli accessi monitorati dal Programma Nazionale Esiti in tutti i presidi italiani: 20 milioni e 927mila persone. Un lieve aumento (+ 377mila) rispetto all'anno prima, in un trend generale di calo nell'ultimo lustro. La gente va meno al pronto soccorso, percepito come un posto in cui si sa quando si entra e non quando si esce. Né come: a dispetto del calo di affluenza, laddove si dovrebbero salvare vite il numero dei morti negli ultimi anni è invece cresciuto. Sono stati 21.559 nel 2010, 22.642 nel 2011, 23.553 nel 2012, 24.063 nel 2013.
Che cosa non funziona? L'ultima fotografia l'ha scattata la Simeu, Società italiana della medicina di emergenza-urgenza, che insieme a Cittadinanzattiva a ottobre ha pubblicato il rapporto su «Lo stato di salute dei pronto soccorso italiani». A guardare bene, si capisce che quello che succede lì è la punta di un iceberg, e sotto il pelo dell'acqua ci sono disfunzioni che toccano più anelli del sistema sanitario. Il giudizio espresso dai 2.944 tra pazienti e familiari intervistati è tutto sommato positivo, chi ci va considera il pronto soccorso un presidio irrinunciabile. Eppure dal monitoraggio viene fuori che quanto più una situazione è critica, tanto più i tempi di attesa si allungano: per il semplice accesso al cosiddetto triage il sistema che serve a valutare l'ordine di priorità, non il livello di gravità si aspettano tra i 9 e i 17 minuti; per una prima diagnosi tra 22 minuti e un'ora e 40; ma per avere un ricovero o un posto letto sono necessarie tra le 24 e le 48 ore in quattro pronto soccorso su dieci, nel 25% dei Dea di I livello (le strutture di emergenza-urgenza per i bacini tra 150.00 e 300.000 abitanti) e nel 19% dei Dea di II livello (per i bacini tra 600.000 e 1.200.000 abitanti).
QUI NON C'È POSTO
Anche la qualità degli spazi lascia parecchio a desiderare nel 20% dei casi manca il bagno per disabili, nel 53% dei pronto soccorso non c'è il sapone e in 4 su dieci manca persino la carta igienica ma il vero nervo scoperto è quello dei posti letto: nel 40% delle strutture di pronto soccorso monitorate i letti per la cosiddetta osservazione breve intensiva (Obi) non ci sono, nonostante il decreto ministeriale 70 del 2015 (Regolamento sugli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi dell'assistenza ospedaliera) li prevedesse come obbligatori. Niente letti anche nel 17% dei Dea di I livello e nel 19% dei Dea di II livello oggetto dell'indagine. Un censimento complessivo dei posti letto presenti in tutte le strutture di emergenza-urgenza d'Italia non esiste, nessuno si è mai preoccupato di farlo. Ma questo dato basta a capire che «c'è una prescrizione di legge che non è stata rispettata in tutte le strutture», fa notare Tonino Aceti, coordinatore nazionale del Tribunale per i diritti del malato. Di più: dove ci sono, i posti letto in osservazione intensiva risultano sovraffollati nel 33% dei pronto soccorso, nel 38% dei Dea di I livello e nel 24% di quelli di II livello.
Il pesce, come sempre, puzza dalla testa: la norma è nata oltre un anno fa per «efficientare», come si dice in gergo, cioè riorganizzare riducendo i costi, ma si è tradotta in tagli e basta. «I motivi sono sicuramente economici, legati alle risorse», osserva Aceti, «ma il decreto dovrebbe essere attuato in tutte le sue previsioni; se si sfoltisce quando c'è da sfoltire e poi non si predispongono i posti letto, è chiaro che per il cittadino diventa un problema importante».
IL PESO DEI TAGLI
L'Italia spende per la sanità il 9,1% del Pil nazionale, contro l'11% della Francia e l'11,1% della Germania, e la percentuale di occupati nel settore è inferiore a Parigi, Berlino e pure Madrid. La spending review degli ultimi anni ha pesato su medici e infermieri dell'emergenza-urgenza ma anche su tutte le realtà territoriali che dovrebbero essere a questi complementari, evitando che il pronto soccorso diventi l'imbuto un po' per tutto. Per esempio, i medici di famiglia, contro cui spesso si punta il dito: burocrati che non vanno mai a visitare il paziente a casa, e spesso sono i primi a indirizzarlo proprio verso il pronto soccorso, si dice. Fiorenzo Corti, della Fimmg (Federazione italiana medici di medicina generale) Lombardia, difende la categoria sostenendo che «tra chi affolla i pronto soccorso c'è anche chi ha bisogno di ecografie, lastre e altre prestazioni che di norma non si richiedono certo al medico di medicina generale, ma in altri reparti ospedalieri. E ci sono anche stranieri e non residenti, che non hanno un medico di famiglia nella città in cui si trovano». È vero poi che i medici di famiglia «si trovano a dover gestire anche una grossa mole di attività amministrative». Forse, come osserva Aceti, «da una parte hanno una grossa mole di lavoro, dall'altra non tutti sono sempre disponibili alle visite domiciliari».
Un dato, però, è certo: i nostri medici di famiglia sono sempre meno, mentre il numero di pazienti di cui ciascuno di loro deve farsi carico, complice anche l'invecchiamento della popolazione, è destinato a salire. Nel 2013 l'Eurostat calcolava che in Italia ci sono 88 medici di base ogni 100mila abitanti, contro i 155 della Francia e i 172 della Germania. Ma entro il 2023, ha annunciato a ottobre l'Enpam, l'ente previdenziale dei camici, andranno in pensione 21.700 medici di base italiani, e il turn over dei giovani non è sufficiente a rimpiazzarli, perché i posti per accedere al corso di formazione in medicina generale, messi a disposizione dalle Regioni, sono stati fortemente ridotti: l'Enpam ha calcolato che per quattro che vanno in pensione, ne entra in servizio solo uno.
Non è l'unico problema. Simeu fornisce un altro dato interessante: dal 2005 al 2015 gli ultra 80enni che sono andati al pronto soccorso sono aumentati al ritmo di 100mila all'anno. Tanti, e in netta controtendenza col trend generale. Succede perché mancano alternative ad hoc come l'Adi, acronimo di assistenza domiciliare integrata: una serie di servizi medici, infermieristici o da parte di specialisti, grande chimera nel panorama dell'assistenza sanitaria territoriale. Un servizio pensato soprattutto per anziani e malati cronici che di fatto funziona bene solo in poche, virtuose regioni (Emilia Romagna, Toscana, Friuli) ed è invece estremamente carente altrove. «In Campania si attendono anche tre mesi per l'attivazione», dice Tonino Aceti, «in generale la situazione è molto frammentata di regione in regione. Ma, anche laddove l'Adi c'è, le ore sono poche, e spesso le famiglie sopperiscono di tasca propria».
ASSISTENZA BOCCIATA
Il rapporto Osservasalute 2015 racconta che il servizio rispetto al 2012 è cresciuto del 14,17%, ma al di là della quantità (1.217 casi trattati ogni 100mila abitanti) spesso è anche la qualità a non soddisfare: dal rapporto Pit salute 2015 del Tribunale per i Diritti del malato emerge che per il 14,1% le ore di assistenza sono insufficienti e nel 18,8% dei casi è stato sospeso per insufficienza dei fondi.
Il 29,4% dei pazienti dichiara di avere difficoltà burocratiche per accedervi, e il 14,1% ne denuncia l'inesistenza sul proprio territorio. Chiaro che in mancanza d'altro si va al pronto soccorso, sperando di uscirne vivi.
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