Il prossimo Nobel? Riotta candida Veltroni

Il direttore del «Sole 24Ore» verga un articolo per correggere (ovviamente in positivo) una recensione del suo giornale all’ultimo libro di Walter. La tesi: è un inno alla sinistra «normale, allegra e scanzonata»

Il prossimo Nobel? Riotta candida Veltroni

Walter Veltroni, fallita la missione come segretario del Pd, riprende la corsa verso il Nobel per la letteratura interrotta dalla tiepida accoglienza ottenuta dal suo ultimo libro, Noi. A lanciare il quasi esordiente narratore (questo è il suo secondo romanzo, nonostante sia inquantificabile il numero di volumi firmati o prefati da Walter) è Gianni Riotta, direttore del Sole 24 Ore, con una lusinghiera recensione. Il momento è buono. Dopo l’assegnazione del Premio a Herta Müller, la prossima volta potrebbe toccare davvero a chiunque.
C’è di più, come segnala il sito Dagospia.

Riotta, infatti, è intervenuto sul «Domenicale» per dettare la linea e rimettere le cose a posto: Veltroni non si tocca. Il 13 settembre, Giovanni Pacchiano aveva vergato sull’inserto culturale del giornale economico una stroncatura di Noi, sotto il titolo neutro «Nei magazzini del passato». Scriveva Pacchiano: «Noi, ha dunque, a prima vista, l’aspetto del romanzo storico. Con, in più, una singolare punta proiettata nel futuro, che potrebbe fare tanto fantascienza, se l’autore non si limitasse a una serie di luoghi comuni senza mordente sul trionfo dell’individualismo e sulla solitudine futura». Urca, che legnata. Ed è solo la prima. A Pacchiano la scrittura di Walter pare «piana, ma non di particolare originalità». Quanto all’ambizione di misurarsi col romanzo storico, meglio lasciar perdere: Noi è «una onesta e a tratti pregevole cronaca storico-romanzesca». Anzi, peggio, è «un magazzino di oggetti del passato: canzoni, film, libri, immagini televisive, eventi sportivi, giornaletti, slogan della pubblicità, giochi, marche di prodotti». Mancano solo le figurine Panini, un pallino di Veltroni, strano. Noi finisce per «annoiare», afflitto com’è da una «componente nostalgica». Dominano il «frammentismo» e il tono «elegiaco». Riassumendo: una vera schifezza, tenersi alla larga.

Si può dire questo di un romanzo di Veltroni? No. Riotta infatti il 4 ottobre rimette le cose a posto. Incipit: «Quando l’autore di un libro è personaggio noto, i recensori spesso finiscono con il mettere sotto critica l’autore, non il volume». Capito Pacchiano? «E Noi - prosegue il direttore - è titolo destinato a subire questa sorte ineluttabile». Ecco. Il lettore dovrebbe quindi «leggere Noi come scritto da Mario Rossi», da uno qualunque, non da un leader (?) politico. Gli elenchi interminabili che hanno fatto sbadigliare Pacchiano sono «il ricordo di un’Italia allegra e scanzonata» tutta gite al mare, supermarket, Coccoina e Carosello. Comunque il valore aggiunto di Noi sta nell’intuito di Walter, il quale ha capito ciò che «manca assolutamente alla sinistra di oggi». Ci vorrebbe infatti «una sinistra del buon senso, della mano aperta, che veda in una pubblicità un sorriso e non la mano del demonio, nella famiglia un calore e non oppressione ratzingeriana, nella memoria simpatia e non manovra massonica». Una sinistra «normale». La sinistra di Walter, quella affossata dagli italiani alle elezioni politiche.

Era ora che qualcuno dicesse chiaro e tondo che Noi è un buon libro. Veltroni era rimasto deluso dalle recensioni buone ma non trionfali come quelle riservate a La scoperta dell’alba. A giudizio della critica italiana, un vero capolavoro. Dacia Maraini aveva dato il via al coro sul Corriere della Sera: solo Walter “Pirandello” Veltroni poteva dipingere una volta per tutte «l’identità sospesa», cioè «la malattia del nostro tempo così ben raccontata da Mattia Pascal, che qui appare con piglio rinnovato nella storia misteriosa e dolente di Giovanni Astengo (protagonista del libro veltroniano, ndr)». Ma Dacia ravvisava anche echi di Conrad, e notava l’eredità del regista Tarkovskij, evidente nell’uso dello «zoom» narrativo. Il giallista Giancarlo De Cataldo, sul Messaggero, aveva sottolineato il «realismo magico» in puro stile García Márquez a cui si deve aggiungere la «fulminante conclusione alla Borges». Secondo Andrea Camilleri, Veltroni mostrava «straordinaria qualità di narratore». Adriano Sofri tirò fuori Leopardi. Sandro Veronesi lo paragonò a Ian McEwan. Lui, forse imbarazzato, fece una precisazione durante un’intervista a Concita De Gregorio per il Venerdì della Repubblica: «Non sono uno scrittore, sono uno che scrive, è diverso». Fu poi la stessa De Gregorio a chiarire le ragioni del successo di quell’opera epocale: «Non è dunque nulla di quel che si mormorava alla vigilia - un giallo, un noir, un thriller psicologico, un romanzo sugli anni di piombo, un racconto metafisico o forse onirico, una confessione autobiografica - ed è invece naturalmente, come sempre quando si tratta di Veltroni, un poco di tutto questo insieme». Era il 2006.

I laudatori nel frattempo sono scomparsi, come il Partito democratico. Noi si è dovuto accontentare dei complimenti di Curzio Maltese, secondo il quale è il libro «più bello» di Walter. Ma è robetta in confronto ai fasti del passato. Vedi cosa succede a perdere il potere?

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