Protesi ipertecnologiche E i soldati Usa mutilati ritornano in prima linea

Hanno perso gli arti, non la voglia di essere al fronte. Scienza e tecnica li aiutano. Gli psicologi: il reinserimento miglior soluzione

Un veterano stanco di guerra o una recluta codarda potevano, un tempo, spararsi in un piede, salutare il fronte e tornare a casa. Fra un po’ non sarà più possibile. Chiedetelo al sergente Tawan Williamson. Un anno fa, in Irak, riaprì gli occhi e vide la sua Humvee bruciare. Si passò la mano sulla gamba, sentì l’appiccicaticcio del sangue, la carne aperta, le schegge d’osso. «È finita, addio divisa, addio vita normale», pensò. Lo scorso maggio tutto era ricominciato. Il cronometro segnava meno di dieci minuti al miglio e lui ne aveva corsi due, quanto basta per tornare in uniforme.
Il maggior David Rozelle è tornato in Irak a comandare il suo battaglione di cavalleggeri e a condurre operazioni di ricognizione dodici mesi dopo aver perso il piede destro. Il 2 aprile 2003 il producer televisivo della Bbc, Stuart Hughes, era con chi scrive e altri giornalisti a Kifri, nel Kurdistan iracheno. Lo vedemmo finire su un campo minato, perdere mezza gamba. Accanto a lui morì l’amico fotografo Kave Golestan. Dal 2005 Stuart ha ripreso a lavorare e girare il mondo. Merito delle nuove protesi computerizzate, merito - per i militari americani - delle nuove norme dell’esercito per il recupero degli amputati e dalle sofisticate tecniche di riabilitazione per i feriti dell’Afghanistan o dell’Irak. «Oggi, a differenza del passato, abbiamo capito che anche un soldato senza una gamba o un braccio rappresenta una risorsa importante per l’esercito», spiega il tenente colonnello Kevin Arata, portavoce del comando per le risorse umane del Pentagono. «Quando dopo aver perso un piede sono tornato in Irak - racconta il 34enne maggiore Rozelle - mi è sembrato di tornare a vivere, il cuore mi batteva forte come la prima volta in combattimento, molti di noi non sono disposti a stare dietro una scrivania».
Almeno sette od otto militari americani sono tornati in prima linea e tra loro anche un veterano delle forze speciali. Il principale segreto di questi combattenti bionici è nascosto nei microchip e nei sensori che collegano l’arto artificiale alle terminazioni nervose. «Il sensore riconosce una pianura, una salita o una scala in discesa - spiega il producer Stuart Hughes - e quando il microprocessore segnala un cambiamento del terreno il meccanismo elettronico collegato alla protesi modifica l’angolo del piede e lo prepara ad un nuovo passo».
Senza un’adeguata riabilitazione neppure quelle protesi da fantascienza, del valore di oltre 90mila euro l’una, garantiscono il miracolo. Per ottenerlo bisogna entrare nei cosiddetti “Centri per gli intrepidi” come quello inaugurato nel 2004 al Walter Reed Army Center di Washington Dc al costo di 10 milioni di dollari. Lì dentro tutto è studiato per permettere un ritorno veloce e adeguato alla vita normale o al campo di battaglia. «Prima li facciamo stare di nuovo in piedi, poi li facciamo camminare, correre, saltare, superare ostacoli... quando sono di nuovo vicini agli standard minimi chiediamo se vogliono riprendere la divisa. Nessuno è obbligato – racconta il colonnello Paul Pasquina – ma chi vuole può mettersi alla prova... sarà il comandante della sua unità, dopo averlo sottoposto ad un normale addestramento, a decidere se restituirlo al vecchio incarico o proporgli un impiego sedentario o dietro le linee».
Secondo Pasquina, protesi e cure garantiscono al 17 per cento dei settecento reduci da Afghanistan e Irak il reinserimento nell’esercito. Una percentuale considerata fantascientifica alla fine degli anni ’80 quando soltanto il 2,3 per cento degli amputati poteva rivedere l’uniforme. Quel reinserimento evita anche le nevrosi e le crisi psicologiche provate in passato durante il difficile ritorno alla vita civile. «Da quando, vent’anni, fa sono entrato all’accademia di West Point, ho conosciuto solo l’esercito: se mi buttano fuori in queste condizioni non so proprio cos’altro fare», ammette il colonnello Gregory Gadson. La scorsa primavera, in Irak, un ordigno comandato a distanza ha disintegrato la sua jeep portandogli via entrambe le gambe.

Ora il colonnello sperimenta una protesi in grado di farlo camminare senza assistenza. Poi tornerà a vestire la divisa, magari dietro una scrivania. «Ho esperienza, tante cose da insegnare e sogno una vita che mi regali ancora qualche sorriso».

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