Il prufesùr che sognava di «elvetizzare» l’Italia

Da dove ora si trova, il professor Gianfranco Miglio di certo sorriderà di gusto di fronte alla contesa di questi giorni intorno al suo nome e dinanzi allo spettacolo di quanti adesso vanno rivendicandolo alla propria famiglia politico-culturale. Ed è pure possibile che un'altra volta finisca per farsi ingannare dalle apparenze, lui che pure fu maestro di realismo politico, ma che troppo spesso s'illuse che la forza intrinseca delle sue idee potesse farsi strada da sé tra i mille opportunismi della politica.
Anche se il grande pubblico l'ha conosciuto per la sua tardiva militanza parlamentare, Miglio è stato sempre e soltanto un professore. Definito da Ernst Jünger «uno degli uomini più colti d’Europa», fu uno scrittore di rara raffinatezza e un oratore perfino migliore. Sotto certi aspetti, la sua opera più importante resta sconosciuta ai più, dato che sono quelle Lezioni di politica pura che per anni egli illustrò agli allievi e che ora circolano come samizdat: in vecchie registrazioni e in (parziali) trascrizioni.
Chiunque gli si accostava avvertiva immediatamente in lui il rigore di uno scienziato che, nel solco di un positivismo d'altri tempi, analizzava il fenomeno del potere con il medesimo spirito con cui un entomologo esamina un insetto; e non è certo un caso che un capitolo importante della sua riflessione sia proprio sul parassitismo.
Passò tutta la vita accademica nei tranquilli spazi dell'Università Cattolica di Milano e lì diede il meglio di sé. Nonostante questo, a più riprese si convinse di poter intervenire nella vita pubblica, magari giocando un ruolo da ispiratore. In linea di massima, i risultati si rivelarono però deludenti.
Preside della facoltà di Scienze Politiche, nel 1964 - dinanzi a Giulio Andreotti - tenne un'importante prolusione (ora pubblicata nei due volumi de Le regolarità della politica) ad inaugurazione dell'anno accademico e in quell'occasione denunciò con forza il degrado della politica nazionale. Al termine della requisitoria, il Divo nazionale si limitò a commentare che forse lo Stato italiano dava troppi soldi alle università private. E già allora fu chiaro come Miglio fosse sicuramente più a suo agio tra Marsilio e Hobbes, tra Machiavelli e Althusius, che anche solo nei paraggi dei palazzi del Potere.
Collaborò con Eugenio Cefis e pensò anche di offrire qualche strumento intellettuale a quel rinnovamento della sinistra che Bettino Craxi realizzò tra gli anni Settanta e Ottanta. Ma quando, anni dopo, un noto giornalista gli chiese se era stato craxiano, egli rispose - con quel suo inconfondibile humour - che non era mai stato l'ano di nessuno. Indubbiamente giocò sempre in assoluta libertà: allora come negli anni seguenti.
In fondo, quanti oggi lo tirano per la giacchetta hanno comunque buone ragioni dallo loro; e non solo in virtù delle peripezie politiche del professore. Più in profondità, è necessario ricordare come egli si sia impegnato con passione nel progetto di riforma costituzionale elaborato dal Gruppo di Milano, da lui presieduto: un disegno che, anche sulla scorta della lezione del «decisionismo» di Schmitt, intendeva introdurre in Italia - grazie al presidenzialismo - una qualche responsabilizzazione del ceto politico.
Al tempo stesso, è sicuramente vero che mai la Lega è stata tanto leghista come quando ha trovato in Miglio il suo teorico. Il neo-federalismo dell'ultima fase intellettuale di questo studioso si proponeva proprio di ridefinire in senso cantonale la Repubblica italiana. Rovesciando il motto americano, Miglio amava sostenere che l'Italia avrebbe meglio rispettato il proprio passato e offerto davvero un futuro alle nuove generazioni se si fosse decomposta secondo la logica «ex uno (l'Italia), plures (i cantoni)».
Memorabili restano taluni suoi testi contro l'imposizione fiscale e l'obbligo politico: come la prefazione che scrisse per una riedizione della Disobbedienza civile che Henry David Thoreau pubblicò nel 1849 per giustificare la libertà di coscienza e il diritto di non finanziare, con le tasse, iniziative pubbliche giudicate immorali. Spietato realista, quindi, Miglio seppe essere al tempo stesso un intransigente avversario dello statalismo.
Per altro, a dispetto dell'apparente tensione, le due opzioni al centro della discussione (quella presidenziale e quella federale) in Miglio intendevano rispondere alla medesima esigenza: reintrodurre il principio di responsabilità in un Paese dominato da governi variamente balneari e maggioranze oltremodo mutevoli. Ma se in un primo momento egli puntò molto sulla «personalizzazione» del potere, nella sua fase ultima e più matura egli si persuase di investire, semmai, sulla «localizzazione».
Già sul finire della Seconda guerra mondiale, d'altro canto, era stato tra i federalisti cattolici del «Cisalpino» e dalla sua Como egli ebbe sempre una grande attenzione per le formidabili istituzioni della federazione svizzera. Il suo sogno, da certi punti di vista, era quello di «elvetizzare l'Italia».
Essere fedeli a Miglio e rivendicarne l'eredità, oggi, è possibile. Ma perché ciò diventi credibile è necessario immaginare davvero un processo che dia piena autonomia di prelievo e massima libertà di iniziativa agli enti territoriali.

Ben venga tale controversia sul professore, allora, se la contesa di natura simbolica si trasformerà in uno sforzo a interpretarne le idee, e se quindi qualcuno inizierà a prendere sul serio le tesi (ancora oggi rivoluzionarie) elaborate dal professore comasco.

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