Per qualcuno il Risorgimento ha violentato il Sud

Questo Terroni di Pino Aprile (Piemme, pagg. 306, euro 17,50) è un furibondo atto d’accusa contro l’Unità d’Italia: fondata - Aprile scripsit - sulle prevaricazioni, sui lutti, sulle ruberie che gli invasori garibaldini e sabaudi inflissero ad un regno prospero, civile, libero. L’incipit del saggio allinea una serie di ruggenti «non sapevo». «Io non sapevo che i piemontesi fecero al Sud quello che i nazisti fecero a Marzabotto. Ma tante volte, per anni. E cancellarono per sempre molti paesi, in operazioni anti-terrorismo, come i marines in Irak. Non sapevo che nelle rappresaglie si concesse libertà di stupro sulle donne meridionali... che in nome dell’Unità nazionale i fratelli d’Italia ebbero pure diritto di saccheggio delle città meridionali... e che praticarono la tortura come i marines ad Abu Ghraib, i francesi in Algeria, Pinochet in Cile... Non volevo credere che i primi campi di concentramento e sterminio in Europa li istituirono gli italiani del Nord per tormentare e farvi morire gli italiani del Sud, a migliaia, forse decine di migliaia».
Non si salva niente. E la controcopertina del volume riassume così il suo significato, revanscista e riparatorio insieme: «La storia di oggi è ancora quella di ieri. La nostra fu interrotta, si può riannodarla solo nel punto in cui venne spezzata. Non si può scegliere la ripartenza che più conviene. Quel che gli italiani venuti dal Nord ci fecero fu così spaventoso che ancor oggi lo si tace nei libri di storia».
Credo non sia necessario trarre altre citazioni da Terroni: la cui lettura ha esercitato su di me, risorgimentalista convinto, una sorta di cupo fascino negazionista. Sono oltretutto amico di Aprile: e voglio sottoporgli qualche mia riflessione. La prima riguarda l’espressione «la storia di oggi è ancora quella di ieri». Sono trascorsi, Pino, 150 anni: quel tempo è stato traversato e cambiato da due guerre mondiali, dal comunismo, dai fascismi, dalla fine dei grandi imperi coloniali, dalla nomina d’un presidente di colore nella superpotenza statunitense che fu schiavista. Il Meridione che lamentò, con ragione, l’invasione burocratica piemontese, oggi amministra con il suo personale l’Italia intera, e i risultati non sono brillanti. Un Paese che fu d’emigrazione ha adesso il problema dell’immigrazione. In questi sconvolgimenti, con lo scomparire e l’apparire d’immani entità statali ed economiche, solo la qestione meridionale sarebbe sempre allo stesso punto, e tutti i mali d’un Paese che ha vissuto tante tragedie deriverebbero di là?
E poi. Per Aprile l’oggi non sfugge alla regola secondo cui il Nord profitta sempre. Il sociologo Luca Ricolfi è di avviso opposto in Il sacco del Nord dove spiega che ogni anno 50 miliardi di euro lasciano ingiustificatamente le regioni settentrionali diretti al Sud. E ancora. Pino Aprile ha posizioni politiche che, diversamente dalle mie, mi sembra possano essere definite progressiste. Ma quando si occupa del Meridione tesse le lodi d’un regno la cui ideologia era espressa nel binomio trono e altare, un regno che onorava tutti gli stereotipi del più vieto legittimismo. Un fautore dei lumi rischia d’essere, a questo punto, un estimatore del Sillabo.
Insieme a Terroni, per giusto equilibrio, mi è arrivato Il romanzo dei Mille di Claudio Fracassi (Mursia, pagg. 406 pagine, euro 19): che valuta l’impresa garibaldina in chiave positiva. È interessante mettere a confronto il modo in cui due giornalisti di lungo corso, e bravi divulgatori di storia, trattano la stessa vicenda. «Mai avrei immaginato - scandisce Aprile nel solenne incipit di «non sapevo» - che i Mille fossero quasi tutti avanzi di galera». Uno degli uomini vicini a Garibaldi - non neutrale dunque - così li descrisse: «Di tutte le età e di tutti i ceti, di tutte le Parti e di tutte le opinioni, di tutte le ombre e di tutti gli splendori, di tutte le miserie e di tutte le virtù». Fracassi è meno poetico e più preciso: «Centosessantatré volontari venivano dalla provincia di Bergamo, più di un centinaio erano i sudditi borbonici provenienti in maggioranza dalla Sicilia, dalla Calabria e dal Napoletano, settantadue i milanesi, cinquantanove i bresciani, cinquantotto i pavesi. Trentacinque livornesi erano partiti da Genova e altri settantasette, dopo aver tentato di raggiungere Garibaldi in un porto toscano, si sarebbero uniti alla spedizione in Sicilia...

Molti erano studenti, cento medici, più di duecento avvocati insegnanti e professionisti, tre preti, una decina di artisti pittori e scultori. Quel piccolo esercito fu uno dei più colti che la storia ricordi». Colti, o delinquenti, o le due cose insieme? Fatico a capire.

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