Cesare G. Romana
da Roma
Da quercia che non si spezza ma neppure si piega, David Zard vive la convalescenza - ha da poco subito un trapianto di fegato - nella sua casa di Trastevere: una palazzina quieta, arredamento raffinato, infrattata in una strada senza traffico. Lambientazione è inattesa, per luomo che fu chiamato, da questo giornale, il «Napoleone del rock»: vero fulmine di guerra, sia nel fulgore del successo sia nelle inevitabili eclissi, come nelle smaglianti rinascite.
Ma se la fase post-operatoria esige riposo e vita casalinga, la capacità di sognare - e di fare - non conoscono convalescenza. Così eccolo, la figura possente appena incurvata, la voce soltanto un po affievolita, inventare progetti, sprofondato sul divano come sul cassero duna nave. «Compio quarantanni di attività in Italia - sinorgoglisce - e la ricorrenza va festeggiata». Come, David? «Un evento lungo un mese, al Mugello. Se tutto va come deve, e cioè bene. Altro non chiedermi, ma sarà qualcosa di grandioso». Cè da crederci, a conoscere questo marcantonio dallanagrafe multipla - libico di nascita, ebreo, siciliano per parte materna, romano per adozione, cittadino del mondo perché tali rende la musica - e dal curriculum infinito: fu il primo a portare in Italia Bob Dylan, era il 1984 e riuscì a persuadere - costringere - il recalcitrante poeta a concedere una delle sue rare conferenze stampa: «Gli dissi, a muso duro: se non parli con i giornalisti non fai il concerto. Capitolò».
Poi i Rolling Stones: il mitico tour dell82, durante il concerto desordio lItalia vinse i Mondiali, Mick Jagger laveva previsto e cantò fasciato nel tricolore. E Madonna, Elton John, i Duran Duran, Branduardi, Baglioni, il Cocciante di Notre Dame, il Dalla di Tosca e chissà quanti altri, un fluttuante firmamento di star. Un firmamento, tra laltro, lungo quattro decenni, a partire da quando, di anni, Zard ne aveva diciannove, giocava a basket con Gheddafi e in Libia «cera una base americana, Fats Domino, i Four Tops, Chubby Cheker venivano ad esibirsi per i soldati ma potevano cantare solo di pomeriggio: la sera i militari dovevano ritirarsi nei loro alloggi e così gli artisti restavano liberi. Io pensai: se gli trovo dei locali, possono esibirsi anche di sera. Così feci: credo davere inventato un mestiere, la figura del promoter non esisteva ancora».
E poi? «Feci amicizia con unagenzia americana che aveva quasi tutti artisti neri. Era diretta da una donna, nera a sua volta. Quando fui buttato fuori dalla Libia, essendo ebreo, arrivai in Italia e la chiamai. Con una telefonata a suo carico, perché non avevo una lira. E lei: tutti in Europa mi chiedono Aretha Franklin, non è che vuoi organizzarla tu? Accettai, girai tutti gli organizzatori dEuropa, andai a bussare anche allOlympia, a Parigi. Chiesi quindicimila dollari e Bruno Coquatrix, il mitico gestore del teatro, mi disse: sono troppi. Allora controproposi: affittami lOlympia e organizzo tutto io. A quei tempi nessuno aveva mai fatto una cosa simile: lui nicchiò, io lo convinsi e rimediai un attivo di ventunmila dollari». Un successo, dunque. «Enorme. Nellintervallo del primo concerto una coppia si presentò in camerino per salutare Aretha. Erano Mick e Bianca Jagger. Non li feci entrare: Dovete aspettare la fine del concerto, dissi. E Mick: Ma io sono Jagger. E io: Non farei entrare neppure von Karajan. Scoppiò a ridere e diventammo amici».
E in Italia? «Fui il primo a portare uno spettacolo pop allArena di Verona. Fu con la Carovana del Mediterraneo: Angelo Branduardi, il Banco. Imbrogliai il sovrintendente dallora, dicendogli che si trattava di musica classica, e per farglielo credere aggiunsi al cast unorchestra sinfonica. Vennero giornalisti da tutta Europa, Stern ci riservò sette pagine e Branduardi divenne una star internazionale. Tranne, sulle prime, a Parigi: radio e tivù non lo volevano, Ce nest pas de varieté, ce nest pas de rock, né carne né pesce, dicevano. Tra i recalcitranti cera Jacques Chancel, titolare di Le grand échiquier, una trasmissione cui partecipava gente come Brassens, Karajan, Béjart, Stern, Rostropovich, Maazel. Era appassionato di vini e io continuavo a invitarlo a cena nel più grande ristorante-enoteca di Parigi. Lui beveva, ma non cedeva». E poi? «Una sera telefonò: Riesci a montare uno spettacolo in dieci giorni?, mi chiese. Anche in due, risposi. Gli era venuto a mancare un artista, e così Branduardi spopolò anche in Francia, con uno spettacolo montato in una settimana, ospiti Maria Carta, Béjart, Milva, Beppe Barra».
Sono questi i successi cui Zard tiene di più: «Perché sono i più ardui. Far venire Dylan o gli Stones è facile, non devi inventare niente, solo portarli. Sta di fatto che Billy Graham, il più grande manager americano, un giorno mi disse: Perché non vieni a lavorare negli States? Se riesci a fare queste cose in Italia, dove tutto è difficile, là puoi lavorare senza muoverti dalla camera da letto. Ma non andai: non cè, al mondo, paese più bello dellItalia».
E Dylan? «Nel mio metodo ci devessere del buono, visto che con tutti gli artisti, a parte Madonna, nasce unamicizia. Dylan, per esempio: è una persona con molte paure, gli piacque il mio non aver paura di niente. Così diventammo amici, gli dicevo: Stasera hai cantato male, e lui: Non sono mica un cantante. Lo invitai a casa mia per la fine del kippur, cerano una quarantina di miei parenti e lui trovò una nuova famiglia. Ogni volta che viene in Italia mi chiede un po del kuskus di mia madre». Un promoter atipico, insomma, questo Zard. «Credo di sì: uno cui non piace fare lagente, il collocatore. Che cerca, con i suoi artisti, una collaborazione creativa, che lasci attaccato qualcosa sia a loro sia a me. Collaborare vuol dire discutere - non sarò mai un signorsì -, progettare, scegliere insieme le canzoni: il successo di Branduardi decollò con la Fiera dellEst, che è un brano tradizionale degli ebrei di Libia, trai tu le conseguenze. Sai qual è la mia vera megalomania? Che sono sempre gli artisti, a cercarmi: sanno che ne ricaveranno un valore aggiunto».
Lo si vide anche con Baglioni: «Sembrava finito, un suo disco, Oltre, non era andato bene e venne da me per cercare un recupero. Lottenne. Poi tentò di farmi fare quello che voleva lui, sennonché io ho un caratteraccio e risposi: Allora, perché sei venuto da me?. Rompemmo».
Infine, per Zard, cè stata lopera pop: Notre Dame di Cocciante, successo mondiale, Tosca di Dalla, Dracula della Pfm. Basta col rock? «È un fatto generazionale, mica posso fare i Coldplay. E poi, è vero che la musica non la si ascolta più, la si consuma. Ma i gusti del pubblico cambiano: nei dischi non cercano più degli hit, ma delle opere dellingegno, di grande respiro e senza data. Gli hit estivi li trovi anche sul telefonino, e i cidì stagionali li scarichi per novanta centesimi. Sai quanto ha venduto in Europa, Inghilterra esclusa, il nuovo cd di Shakira? Trentacinquemila copie. Nella sola Italia, lultimo cofanetto di Cocciante ha venduto altrettanto».
Questo per i dischi. E per i concerti? «Anni fa avere gli spazi era difficilissimo, oggi te li tirano dietro. Ma lo spettacolo dal vivo resta un fatto délite, non ha ancora raggiunto il suo potenziale. Forse per i costi: il Gran Teatro, qui a Roma, si mangia novemila euro al giorno, anche da chiuso. Può, una famiglia che guadagna duemila euro al mese, tirarne fuori centocinquanta per un concerto? Non può. Così ho escogitato i biglietti venduti a rate: ci lavoro da tre anni, siamo, spero, in dirittura darrivo. Perché bisogna amarlo, il pubblico italiano: è il migliore del mondo. Guarda il Cirque du Soleil: la gente esce con le lacrime agli occhi, neanche a un concerto dei Beatles».
Esiste, insomma, un metodo Zard. Vogliamo svelarlo? «Cercare il bello, più del profitto. Sono lunico imprenditore della musica che, i soldi che guadagna, li butta nella musica.
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