L’ultimo libro di Folco Quilici, a sfondo largamente autobiografico, è ambientato in una valle prealpina dominata da un imponente maniero «La dogana del vento». Nome che diventa titolo del volume edito da Mondadori (194 pagine, euro 18,50). Quilici non ha bisogno di presentazioni. Come scrittore e come cineasta ha saputo esplorare tempi e luoghi lontani, e intrecciare il piacere della scoperta al gusto della rievocazione appassionata. Tecnicamente La dogana del vento è un romanzo. Potremmo definirlo «romanzo storico», un filone che nella letteratura italiana e mondiale occupa un posto di straordinaria importanza.
Siamo nel 1945. Il protagonista, Guido, un quindicenne sfollato in campagna con i familiari, vive a Villa Alta. Lì si presenta, mentre l’immane conflitto mondiale volge alla fine e la tigre tedesca è ormai rantolante, un soldato, poco più d’un ragazzo anche lui. Si chiama Pjotr e appartiene a uno dei reparti cosacchi - fieramente anticomunisti per consolidata tradizione - che la Germania ha mandato a presidiare terre italiane e a combattere i partigiani. Furono anche spietati, i cosacchi. Ma Pjotr è gentile, ingenuo, pieno di speranze. Guido ne perderà poi le tracce, immaginandolo travolto e annientato dalla drammatica e atroce sorte di quanti, nemici di Stalin, tornarono nelle sue mani.
Trent’anni dopo l’ex-ragazzo che fu amico d Pjotr riconoscerà un figlio di lui in un giovane e promettente calciatore del Como: figlio d’una maestra, Erminia, che ebbe una brevissima e intensa fiammata d’amore con il ragazzo cosacco. Non stuprata, come tante, ma innamorata. Guido conosce Erminia.
Questo e l’intreccio di La dogana del vento, una «armata s’agapò» alla cosacca, una delle tante vicende dì una stagione terribile e affascinante, d’amore e di morte. Con delicatezza ed efficacia Quilici intreccia la vicenda di Guido, di Pjotr, di Erminia alla ricostruzione di eventi immani e sanguinari. Spinto dalla voglia di sapere tutto, Guido raggiunge la cittadina austriaca di Lienz dove centinaia di cosacchi furono messi a morte, dove in un solo giorni circa duemila di loro tra cui donne e bambini si uccisero gettandosi nella Drava per non essere consegnati all’Urss, dove rimaneva il ricordo delle promesse che esplicitamente o a mezza voce erano state fatte. Gli atamani, capi dei cosacchi, vantavano entrature alla Corte reale britannica, erano convinti d’ottenere un «onorevole perdono», di poter magari emigrare in Australia.
«Si era lasciato credere alle truppe cosacche - annota Quilici - che gli alleati potessero considerare se non legittima almeno comprensibile la decisione del governo cosacco (in esilio a Parigi e a Praga dal 1919) di combattere contro l’esercito russo. Per cui la loro non sarebbe stata una diserzione in massa dall’armata sovietica ma la continuazione della lotta agli aggressori di un tempo».
L’infondatezza di quelle illusioni è evidente. Gli angloamericani non avevano nessuna voglia di negare a Stalin la consegna dei ventimila che dell’armata cosacca facevano parte e che erano stati autorizzati a creare in Carnia una sorta di staterello, la «Kosakenland».
Il 10 dicembre 1943 il governo del Reich germanico aveva indirizzato ai cosacchi un proclama nel quale garantiva che «se la situazione del momento bellico non vi permetterà di tornare nella terra degli antenati vostri, allora vi aiuteremo a creare la vostra vita da cosacchi in Occidente sotto la protezione del Fuehrer, fornendovi terre e tutto quanto necessario per la vostra assistenza». Insomma la Carnia doveva diventare la nuova patria dei cosacchi. Altro che terre e assistenza, i cosacchi, come l’armata Vlasov, erano attesi da fucilazioni di massa o, nel migliore dei casi, da anni di gulag.
In pagine commoventi una testimone racconta a Quilici, nel suo italiano approssimativo, i suicidi di Lienz; «Molti cosacchi gridano non ancora schiavi di russi. No uccisi dai russi. Le donne fuggono con bambini.
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