È l'11 febbraio di un anno fa. Hosni Mubarak ha già registrato il suo discorso d'addio. Piazza Tahrir attende, ma la rabbia sembra sul punto di esplodere. Da ore gira voce che il presidente e la sua famiglia siano fuggiti. In verità sta succedendo in quei momenti. Al palazzo presidenziale un elicottero attende con i motori accesi. Le guardie del corpo accompagnano fuori Suzanne, la moglie di origine gallese del presidente. I due figli Gamal e Alaa sono già sui sedili. Non c'è più molto tempo. I militari temono che la piazza esploda e i dimostranti diano l'assalto ai palazzi del potere. Vogliono assolutamente far trasmettere quel discorso. Ma Mubarak e la sua famiglia devono prima essere al sicuro a Sharm el Sheik. D'improvviso Suzanne salta giù dal sedile, corre verso la villa. La scorta e i figli pensano a un gioiello, ad un cimelio dimenticato. Ma lei non torna. Alla radio i generali fanno fretta. Quel ritardo rischia di stravolgere tutti i loro piani. Le due guardie più fidate si precipitano dentro. La trovano allungata sul pavimento. Piange disperata accanto ad un mucchio di gioielli e vecchi ricordi. La tirano su per le spalle. Lei singhiozza, ripete senza sosta la stessa frase «Deve esserci una ragione, deve esserci una ragione». Le spiegano che non c'è più tempo. Lei li guarda allibita, terrorizzata. «Arriveranno anche qui, anche qua dentro? Vi prego non lasciateli entrare… Vi supplico non permettetegli di distruggere tutto….Restate qui nel palazzo, prendetevelo voi, ma per favore difendetelo». Quella folle disperazione, quel disperato inconsolabile attaccamento ai simboli del potere segnano la fine della telenovela, ma anche l'uscita di scena dell'uomo e del clan che avevano tenuto in pugno l'Egitto per 32 anni. Tutto inizia con le manifestazioni del 25 gennaio. Ritrovatisi per la prima volta a fronteggiare la collera e l'indignazione di un Paese che non risponde più né agli ordini né alla paura, Mubarak e i suoi non hanno saputo reagire. La cronaca inedita della caduta del Faraone emerge dalle pagine un libro di Abdel Latif el-Menawi, l'ex direttore della televisione egiziana protagonista di quei giorni cruciali. Negli estratti pubblicati dal Times di Londra El Menawi racconta di esser stato lui, dopo due settimane d'indecisione, a spiegare ai capi dei servizi di sicurezza l'insostenibilità di quell'attesa. «Uno di loro - ricorda l'ex direttore - mi rispose che il Corano cita l'Egitto cinque volte e la Mecca solo due…. dunque Dio non potrà far a meno di proteggerci». Alla fine i generali accettano.
La persona scelta per convincere Mubarak ad andarsene è Anas El Feky, il ministro dell'informazione considerato dal presidente alla stregua di un figlio. Mentre El Feky tratta con Mubarak, El Menawi scrive il discorso d'addio. Ma alle dieci di sera Mubarak non c'è ancora. Negli studi televisivi c'è solo il figlio Gamal che ne approfitta per cancellare tutte i passaggi del discorso in cui si parla di dimissioni. Venti minuti dopo Mubarak è al suo posto.
«Incominciò a leggere incespicando e sbagliando, bloccandosi e correggendosi - ricorda l'ex direttore -, alla fine fu il discorso peggiore della sua vita. Suonava arrogante e insensibile. Un totale disastro». Pochi minuti più tardi Mubarak è sull'elicottero. Il capo dei servizi segreti Omar Suleiman gli telefona per chiedergli se vuole volare all'estero. Il Faraone rifiuta.
«Non ho fatto nulla di male, finché sarò vivo resterò in questo Paese». Quando l'elicottero si posa a Sharm telefona al maresciallo Tantawi e gli affida il comando. Da quel momento Mubarak diventa l'ombra di se stesso. Passa le giornate a letto guardando vecchie partite di calcio senza mai alzarsi. Un giorno sembra entrato in coma.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.