Quando la Quercia strizzava l’occhio alla Lega di Bossi

Francesco Damato

Passata l’illusione di ricavare dall’infortunio dell’ormai ex ministro Roberto Calderoli una rottura della Lega con gli alleati di governo, e la conseguente certezza della sconfitta elettorale del centrodestra, l’opposizione mostra di sognare dieci, cento, mille Bengasi, come gli imbecilli che hanno appena ripetuto per le strade di Roma «dieci, cento, mille Nassirya». Prevale la voglia di vedere in difficoltà la maggioranza.
Rileggete un attimo con me ciò che in una lettera pubblicata da Repubblica lunedì scorso ha scritto Romano Prodi, il leader di «un’alleanza guidata dalla sinistra», come si era vantato di avvertire e certificare qualche giorno prima in una intervista il presidente dei Ds Massimo D’Alema. «Le doverose dimissioni dell’onorevole Calderoli - sosteneva Prodi - non possono chiudere la vicenda. L’Italia ha bisogno di una nuova politica estera verso il Mediterraneo, in modo da garantire la nostra sicurezza e i nostri interessi e affermare finalmente il ruolo di equilibrio e di saggezza che è nella tradizione di questo Paese».
Mentre le comunità arabe che si affacciano sul Mediterraneo, ma non solo quelle, sono attraversate da pulsioni integraliste sempre più inquietanti, gestite da avventurieri e fanatici pronti a sfruttare ogni pretesto, anche una vignetta su Maometto esibita da un dimissionato ministro italiano in difesa della libertà di stampa e di satira, il capo dell’opposizione non trova di meglio che fare da sponda ai malintenzionati e accusare il governo del suo Paese di mancare di «equilibrio» e «saggezza». Che sfacciatamente egli si offre di garantire, pur avendo alle spalle uno schieramento che più schizofrenico non potrebbe essere. Ne fa parte, per esempio, il comunista Oliviero Diliberto, peraltro già ministro della Giustizia, che la mattina si duole che un suo corteo filopalestinese sia stato disturbato da «estranei» con l’incendio di bandiere israeliane e americane e con frasi inneggianti al terrorismo iracheno e la sera ne recepisce e rilancia gli umori dicendo in una intervista televisiva a Maurizio Belpietro: «Non vorrei più essere subalterno agli Stati Uniti come ora». Questa sarebbe la politica estera con la quale Prodi, magari tra una seduta spiritica e l’altra, si propone in caso sciagurato di vittoria elettorale di rimettere le cose a posto.
Oltre che a Bush, il presidente del Consiglio sarebbe naturalmente subalterno alla Lega, per quanto le abbia appena fatto ingoiare il rospo delle dimissioni di Calderoli da ministro dopo il contributo involontariamente dato dall’esponente leghista, con la sua maglietta mostrata in televisione, agli assalti al consolato italiano a Bengasi. I leghisti - ha spiegato il segretario dei ds Piero Fassino all’Unità - «non hanno paura di assumere comportamenti molti vicini al razzismo e alla xenofobia», per cui la loro partecipazione al governo «rende ancora più evidente l’inaffidabilità del presidente del Consiglio e di questa maggioranza». Eppure ad una recentissima manifestazione leghista Fassino ha mandato a rappresentare il suo partito Pierluigi Bersani, che non ha risparmiato corteggiamenti al Carroccio sottolineandone, fra l’altro, la natura «popolare», elogiata già dieci anni fa da D’Alema parlando della Lega come di «una costola della sinistra».

Ne facevano parte già allora, con i loro linguaggi e i loro tic, i vari Calderoli e Borghezio. I leghisti peraltro viaggiavano in quel periodo sui binari della secessione rivendicando anche nella denominazione dei loro gruppi parlamentari «l’indipendenza della Padania».

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