T anto tuonò che piovve. Il 24 novembre scorso, quando al Quirinale il ministro della Giustizia Castelli fece presente a Carlo Azeglio Ciampi di essere contrario alla concessione della grazia a Ovidio Bompressi e che di conseguenza non era in grado di inviare al capo dello Stato il relativo decreto, il presidente prese atto di tale comunicazione e si riservò di assumere le proprie decisioni. E adesso ha finalmente battuto un colpo elevando davanti alla Corte costituzionale conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Guardasigilli.
Ma perché Ciampi si è deciso a decidere soltanto adesso, visto e considerato che - stando ai si dice - il ricorso alla Consulta era pronto da gran tempo? Elementare, Watson. Il presidente della Repubblica si è deciso al gran passo solo quando ha avuto assicurazioni in alto loco che il Parlamento in seduta comune avrebbe eletto a breve, dopo tante votazioni a vuoto, i sostituti dei giudici Onida e Mezzanotte nelle persone di Mazzella e Silvestri, anche se nella votazione di ieri quest'ultimo non ce lha ancora fatta per il rotto della cuffia.
Tuttavia il ricorso presentato dallavvocatura dello Stato, tecnicamente ben congegnato e al quale probabilmente non sono estranee le manine di due autorevoli consiglieri del Colle quali Sechi e D'Ambrosio, è tutto in salita. Difatti, piaccia o no, tutto congiura contro la tesi avanzata nel predetto ricorso secondo la quale il potere di grazia sarebbe formalmente e sostanzialmente presidenziale. Con la conseguenza che la controfirma del ministro della Giustizia si configurerebbe come mera attestazione della provenienza e della regolarità formale dellatto.
In effetti la contrapposta tesi, sostenuta da Castelli, secondo la quale quello di grazia sarebbe un atto duale o complesso che dir si voglia, valido solo grazie al concorso di volontà del capo dello Stato e del Guardasigilli, è suffragata da una molteplicità di valide motivazioni. Fin dai tempi dello Statuto albertino si è formata una consuetudine costituzionale in tal senso. I padri fondatori della Costituzione recepirono pari pari larticolo 8 dello Statuto, a testimonianza che non intendevano cambiare una virgola. Lassemblea di Montecitorio ha colato a picco la proposta di legge Boato e bocciato l'articolo 38 della riforma costituzionale che per taluni atti presidenziali, tra i quali quello di grazia, escludeva sia la proposta sia la controfirma ministeriale. Nel 1991 lallora presidente Cossiga non fu in grado di concedere la grazia al brigatista Curcio perché vi si oppose il guardasigilli Martelli con un ricorso alla Consulta che indusse tanto Cossiga quanto il presidente del Consiglio Andreotti a fare una precipitosa marcia indietro, dal momento che entrambi riconobbero le prerogative del ministro della Giustizia in materia di grazia. Infine, ben due pronunce della Corte costituzionale si sono espresse in tal senso.
Come se tutto questo non bastasse, si può aggiungere quella regina delle prove che è la confessione. Il comunicato del Colle del 18 luglio 2003 precisa che «negli ambienti del Quirinale si ricorda che, fin dal gennaio 2002, l'Ufficio Giuridico della Presidenza della Repubblica ebbe a precisare che non esiste nel nostro ordinamento un potere autonomo di grazia del Capo dello Stato». E il successivo comunicato del 20 agosto ribadisce che «in mancanza del consenso del Ministro della Giustizia a voler controfirmare leventuale decreto presidenziale di concessione della grazia, non è costituzionalmente possibile emanare il suddetto decreto presidenziale, in quanto sarebbe non valido. Ciò è attestato dalla prassi costituzionale in materia».
Ciò nondimeno, è possibile che la Consulta, dopo aver ammesso il ricorso, in autunno nel merito dia ragione a Ciampi e torto a Castelli. Ma una eventuale pronuncia di tal fatta per Ciampi sarà una vittoria di Pirro. Come del resto paventa lo stesso Castelli.
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