In un lungo articolo sul Corriere della Sera il ministro dellEconomia Tommaso Padoa-Schioppa fa unanalisi impietosa dellItalia degli ultimi dieci anni. Un crollo non solo della crescita economica e della produttività che mina la competitività dellintero sistema Italia, ma anche di quella spinta ideale della società nazionale senza la quale leconomia declina e il Paese si impoverisce, anche moralmente. Unanalisi largamente condivisibile. Tommaso Padoa-Schioppa, però, non tenta neanche per un momento di capirne le cause. Il ministro dellEconomia è un tecnico, e non gli si può chiedere di aprire la porta delle riflessioni politiche. Il cuore della questione italiana, però, è tutto lì, oltre quella porta che nessuno ha voglia di aprire. Padoa-Schioppa ricorda, pur senza nominarle, le scelte di fondo che fecero dellItalia un grande Paese industrializzato. La riforma agraria, lAlleanza atlantica, la Comunità del carbone e dellacciaio, i patti di Roma del 1957, i grandi settori industriali a tecnologia avanzata, il sistema monetario europeo del 1978 che preparò lEuropa alla moneta unica. Scelte contrastate quasi sempre dalla maggioranza di quellestablishment per il quale si chiede da alcuni anni un più accentuato ruolo di guida del Paese. Se il bandolo delle scelte nel passato fosse stato nelle loro mani non avremmo fatto né lEuropa né il sistema monetario europeo. E va da sé ricordare che contro quelle scelte, accanto a parte dellestablishment confindustriale e culturale, si schierò anche la sinistra politica e sindacale.
Il suo interessato conformismo governativo fa dimenticare, inoltre, a Padoa-Schioppa gli anni Ottanta con la lotta vincente contro il terrorismo e contro linflazione a due cifre attraverso la riforma della scala mobile dell84. Così come fa dimenticare ciò che avvenne alla fine del 91, con leliminazione definitiva della scala mobile e la firma degli accordi di Maastricht. Tutte tappe fondamentali per preparare lItalia alle sfide della globalizzazione economica che lentamente cominciava ad affacciarsi. Perché, dunque, è venuto meno quello slancio che consentì alla società italiana dellepoca di crescere economicamente, socialmente e politicamente? La risposta è fin troppo semplice e tocca il nervo scoperto di quel potere senza politica che da dodici anni a questa parte ha preso il sopravvento nella guida del Paese.
La differenza tra ieri e oggi, e tra lItalia di Prodi e gli altri Paesi europei, sta proprio qui, nella scomparsa dei grandi partiti di massa ancorati alle culture politiche che governano ancora oggi lintera Comunità europea. Spieghiamoci. Un partito è linsieme di uomini e donne di generazioni diverse, uniti tra loro da alcuni valori e da un comune sentire rispetto ai nuovi bisogni e alle nuove sfide del Paese. E in quel comune sentire, un mix di convinzioni e di emozioni, si iscrive poi una lotta tra la parte più moderna che corre in avanti e unaltra parte, più ortodossa e lenta e più attenta ai valori della tradizione. Questa lotta, che è anche lotta di potere, crea nel partito di massa quellequilibrio che consente di far progredire il Paese senza avventure, ma anche senza arroccati conservatorismi.
Partiti così fatti creano gruppi dirigenti radicati sul territorio che attivano canali di informazione e di formazione con quei pezzi organizzati della società nazionale che formano lestablishment del Paese. Un permanente scambio di reciproca influenza che attiva così la parte migliore del Paese, dando ad ogni programma di governo quellanima che rende coesa la società nazionale e impedisce il furibondo scontro tra i diversi interessi.
Ecco, dunque, cosa manca allItalia di oggi. Le grandi culture politiche e i partiti di massa. Negare le prime impedisce la creazione dei secondi, che si frantumano in piccoli e modesti fatti organizzativi. È questo il destino che si sta consumando anche per il progetto del Partito democratico, i cui dirigenti non sono uniti neanche su ciò che non vogliono.
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