Quante balle si raccontano sul Fascismo

Al regime mussoliniano sono stati (e sono) attribuiti meriti o spietatezze inesistenti. Per molti fu un’inutile sceneggiata. Le tragedie personali ci furono, ma la paura che aleggia nei veri totalitarismi non si avvertiva

Tuttora si discute, perfino con accanimento, se il fascismo sia stato solo autoritario o anche totalitario, se debba essere avvicinato per le sue caratteristiche alle più feroci dittature del Novecento, addirittura tracciando loro la strada, o se invece sia stato, con la diarchia Re-Duce, una singolare e ambigua creatura politica. Della quale - lo considero sottinteso - la repressione era comunque un elemento indispensabile.
Al dibattito partecipano con slancio studiosi che il fascismo non l’hanno conosciuto se non attraverso le carte: il che è del tutto normale. Gli storici possono e debbono risalire indietro negli anni e nei secoli. Magari concedendosi, quando trattano vicende antiche, qualche maggiore libertà. «Sai Mario - mi diceva un giorno Indro Montanelli che nelle storie di Roma e dei Greci era stato pungente e divertente - Nerone non può dare querela, Fanfani può».
Più che legittime, dunque, le incursioni nel fascismo di chi non l’ha vissuto. Ma, avendolo io vissuto dall’infanzia alla giovinezza, ho l’impressione che al fascismo siano addebitate, se non lo si è visto da vicino, spietatezze inesistenti, e attribuiti meriti che non ha avuto. Le due scuole di pensiero che sul fascismo si scontrano - la demonizzatrice e l’indulgente - obbediscono anche, la prima soprattutto, a un impulso politico. Bisogna enfatizzare i crimini del Regime per poi enfatizzare anche le glorie dell’antifascismo e della Resistenza.
A questo proposito ritengo tuttavia necessario porre un punto fermo. Il fascismo è finito il 25 luglio 1943. Il periodo fosco e tragico della Repubblica di Salò appartiene al nazifascismo, che fu cosa diversa e assai più turpe e sanguinaria. L’intrecciare quei due periodi costituisce un consapevole o inconsapevole falso. Un fatto dev’essere sempre tenuto a mente quando ci si riferisce al fascismo «normale»: tra i proclami, le intimazioni, gli slogan, le mistiche, le minacce vociferate dagli altoparlanti e la realtà del Paese correva una distanza siderale. Quasi nulla di ciò che era scritto, decretato, urlato trovava corrispondenza nella vita quotidiana, e dunque l’esercitarsi su quei documenti è interessante ma spesso fuorviante.
Nato nel 1921, sono cresciuto nella Milano del «quadrilatero d’oro» che allora ospitava - prima che fossero scacciati dai troppo osannati «stilisti» - artigiani, botteghe, gente minuta. Ho fatto le elementari nella scuola di via Spiga. Per una visita di Mussolini a Milano noi bambini - doverosamente in divisa di Balilla - eravamo stati allineati in via Manzoni, ma l’Insonne tardava a passare e allora le mamme vennero una dopo l’altra a prendersi i pargoli, con la svogliata opposizione di centurioni e seniori in orbace che vedevano in pericolo la scenografia. Al passaggio del Duce la barriera di folla s’era ricomposta, ma di bambini ne rimanevano pochi.
Poi vennero per me il ginnasio e il liceo al Parini. La cui attuale sede in via Goito era ancora in costruzione quando entrai in prima media: ci ospitava il collegio Longone nell’edificio occupato attualmente dalla Questura, in via Fatebenefratelli. Il fascismo fu per noi ragazzi un orpello fastidioso, non una passione e nemmeno una persecuzione. Mi guarderò bene dall’affermare, per farmene immeritatamente vanto, che il Parini fosse antifascista. Lo erano, in maniera ragionata e risoluta, solo alcuni di noi studenti. Voglio citare Antonio Cederna che per retroterra familiare e culturale poteva meglio valutare non gli aspetti grotteschi - visibili a tutti - ma la povertà ideologica e politica del fascismo. Eravamo mormoratori, al più, non ci sfuggiva il cotè comico della propaganda mussoliniana: ci divertivamo, nella mia classe, con imitazioni del giornale radio e dei suoi accenti vibranti.
Ricordo due presidi, Guido Vitali che fu un raffinato traduttore dell’Eneide, e dopo di lui Garavoglia. I docenti ignoravano la politica. Non saprei dire oggi come la pensasse Augusto Vicinelli, professore d’italiano, o come la pensasse il famoso latinista e grecista Edmondo D’Arbela (ma insegnava in un’altra sezione). I presidi dovevano, nelle solennità patriottiche o fasciste, tenere un discorsetto, ed era molto coinvolgente, nel tenerlo, Guido Vitali: che per tutta ricompensa, essendo ebreo, fu cacciato a causa delle leggi razziali. Quel provvedimento odioso rivelò a noi che gli volevamo bene la faccia crudele del regime. I giustificazionisti spiegano che c’era una gran differenza fra le leggi razziali italiane e quelle tedesche: nella lettera e soprattutto nell’applicazione. Lo so. E se pensiamo ai milioni di vittime nei campi di sterminio la perdita del lavoro può sembrare blanda. Era invece, per chi la subiva, una tragedia personale e professionale, oltre che una ingiustizia spaventosa.
Chiamato alle armi - anzi «volontario» forzato - come tutti gli universitari della mia classe, ho conosciuto l’impreparazione penosa delle forze armate, la disorganizzazione, il disordine. Il battaglione cui appartenevo doveva essere mandato in Africa Settentrionale, un altro battaglione con molti miei compagni del corso allievi ufficiali era previsto che andasse in Sardegna. E loro un po’ ci prendevano in giro, chiamandoci «i morituri». Il mio battaglione finì nelle forze d’occupazione in Grecia, quello della Sardegna finì in Russia, e non ne tornò quasi nessuno. Con il suo bellicismo di cartapesta, la sua caricatura della romanità, le veline del Minculpop, i fogli d’ordine staraciani, le umilianti sconfitte militari - si può perdere una guerra ma uscirne a testa alta, l’Italia ne è uscita malamente -, il fascismo ha fatto molto male al Paese. Non dimentico poi né le condanne del Tribunale speciale, né l’Ovra, né il confino che sicuramente era cosa diversa da una villeggiatura. Non si tratta di negare le brutalità fasciste, si tratta di dimensionarle, raffrontandole ai comportamenti dei veri totalitarismi. I condannati dal Tribunale speciale e i confinati, sotto Stalin sarebbero stati tutti giustiziati, e con loro amici e parenti fino alla terza o alla quarta generazione. Una cosa soprattutto vorrei - da testimone - sottolineare. Il fascismo - quello precedente il 25 luglio - poteva incutere insofferenza, avversione, disprezzo. Paura no. O meglio: incuteva paura a una minoranza piccolissima e nobile di antifascisti dichiarati e schedati.
La paura che negli autentici totalitarismi è sempre presente, aleggia ovunque, determina viltà e delazioni, nell’Italia in camicia nera non la si avvertiva. Quando Mussolini decise, con un grossolano errore di calcolo, di precipitare l’Italia nella Seconda guerra mondiale, era diffusa nel Paese, che amava la Francia, l’impressione che la Germania avesse già vinto la guerra: e che il Duce avesse agito con cinismo ma con realismo. Nessuna fabbrica si fermò. C’era, si dirà, la sorveglianza poliziesca.

C’era anche nel marzo del 1943, quando in molte industrie del Nord ci furono scioperi, nonostante l’apparato poliziesco e le leggi di guerra. Scioperi antifascisti, si è sottolineato. Sì, scioperi antifascisti. Ma contro il fascismo che ormai, era evidente, stava perdendo la guerra.

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