Quei piccoli borghesi a rischio di estinzione

Bistrattato, ridicolizzato, ridotto a caricatura sociale. È il piccolo borghese. Cioè, tutti noi. Per tutti noi, è in libreria un pamphlet che equivale ad ossigeno mentale. Salvate il piccolo borghese, di Jacques de Saint Victor (Università Bocconi editore, pagg. 159, euro 16). Il quale si propone di spezzare l’assedio concentrico che stringe il piccolo borghese. Additato da sinistra come bottegaio, archiviato da destra come mollaccione. Fuoco ideologico incrociato, a cui da due anni si è aggiunta la mazzata della crisi economica, che lo ha individuato come vittima privilegiata. Risultato: «il piccolo borghese non è mai stato così vicino alla porta d’uscita della storia». Il che di per sé non sarebbe una tragedia, se non fosse per un dettaglio già annotato da Tocqueville: quel legame impercettibile eppure decisivo tra «il piccolo borghese e la democrazia liberale». Ovunque sia stato in crisi o sia stato sfasciato il ceto medio, per la democrazia liberale è stata notte fonda (vedi Germania nazista e Unione Sovietica). Vale allora davvero la pena di provare a salvarlo, questo infimo piccolo borghese. Di provare a salvarci.
Salvarci da che cosa? Ancora una volta, da un pericolo scorto a suo tempo da Tocqueville: l’affermarsi di una «nuova aristocrazia» che passeggia allegramente sui resti del piccolo borghese, con la beffa di sfoggiare un sorriso amichevole. Le sue vesti contemporanee sono quelle di un’ «euforia manageriale», che ci strilla in faccia: «Piccoli borghesi! Fuori dalla scena politica! Largo all’aristocrazia finanziaria, alla ristretta cerchia di esperti, ai feudatari della globalizzazione!». È quello che ha certificato la crisi. Il predominio dei tecnocrati dell’alta finanza sul piccolo borghese, l’unico a perdere davvero tutto. Arma micidiale per l’avvento dei tecnocrati, dalle nostre parti, la retorica su quel Grande Moloch Buono dell’Europa: «Bruxelles, ricordiamolo, obbliga i danesi a rivotare nel 1992 finché non dicono sì al Trattato. Allo stesso modo in cui si aggirerà la volontà popolare dopo i referendum persi nel 2005 in Francia e Olanda. Che importa? La democrazia è bene, l’Europa è meglio. Perché mai chiedere al piccolo borghese cosa ne pensa?».
La finanza tecnocratica ha avuto un grande alleato nell’opera di mortificazione continua del piccolo borghese. Il pensiero di sinistra. O meglio, quelli che Saint Victor chiama «bolscevichi del mercato» hanno prosperato a destra come a sinistra. Ma il pensiero di destra si è tenuto strette alcune cartucce ideali di riserva: «Oggi, di fronte alla crisi, può ritirare fuori Tocqueville o Aron». Il pensiero di sinistra si compiace invece della propria parabola, per cui ora volge la stessa dedizione che metteva al servizio della rivoluzione al servizio delle oligarchie finanziarie. Cortocircuito che Saint Victor riassume così: «La sinistra libertaria pensa che il mercato le offra finalmente la possibilità di vendicarsi sul vecchio ordine borghese paternalista. Viva il mercato, visto che ha liberalizzato la pornografia!». Quest’ansia nuovista, questa spregiudicatezza salottiera, ha un nemico principale. L’odioso, anacronistico, inadeguato fin nei vestiti e negli hobby, piccolo borghese. Da cui la cosiddetta «rivoluzione» del ’68: una rimozione forzata dell’antropologia del piccolo borghese. A vantaggio dell’ottava meraviglia della modernità, l’industria del tempo libero. «Il culto beat della società civile spinge a trasformare la democrazia in pubblicrazia». E il ’68 si rivela decenni dopo quel che per Pasolini era in diretta. L’irrompere di nuove élite dirigenti che oggi monopolizzano i media, avamposto da cui infieriscono sul piccolo-borghese in due modi: instillandoli il sentimento della propria inferiorità intellettuale (intemerate alla Gad Lerner) o propinandogli trash convincendolo che è quello che vuole (Grandi e piccoli Fratelli assortiti).
In ogni modo, il gioire del consumo «ha avuto bisogno di disfarsi degli arcaismi religiosi, morali, etici che erano d’intralcio al trionfo della merce». Ecco, l’ingranaggio concettuale in cui è rimasto stritolato il piccolo borghese. L’errore comune al marxismo e al liberismo tecnocratico-finanziario, che Saint Victor distingue dal liberalismo politico. Il primato totale accordato quasi con noncuranza all'economia, questa «scienza triste», come la chiamava Carlyle. Marx e i guru dell’alta finanza sono entrambi «produttivisti», inseguono entrambi il dinamismo del grande capitale, detestano entrambi come nemico principale il piccolo borghese che tutti noi siamo.

Non a caso Marx nel suo Manifesto rade al suolo l’universo piccolo borghese, bollandolo come «a un tempo reazionario e utopistico». Due aggettivi infamanti, per lui. Come per i tecnocrati di Bruxelles e i manager dell’alta finanza. A noi piccolo borghesi lasciatele invece, le nostre utopie. E se son reazionarie, meglio.

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