Quei ragazzi «neri» ammazzati due volte

Luca Telese ha ricostruito la tragedia di ventuno vittime degli anni di piombo

Di tante vite spezzate quello che alla fine resta è lo strazio delle madri. I padri quasi sempre con quello strazio non sono riusciti a convivere, e se li è portati via un infarto, una depressione, la cirrosi da troppo alcol, il tumore da troppo fumo... Quanto ai fratelli, o alle sorelle, alle fidanzate, l’ala della giovinezza elabora il lutto con disarmante facilità e consegna alla memoria immagini dolcemente sfocate, soprassalti di ricordi, una frase, un sorriso, a volte un rigo... Le madri no, per loro quella morte rimane una ferita sempre aperta e dieci, venti, trent’anni dopo che il loro figlio se n’è andato sono ancora lì, a tenere in ordine la tomba, a rimettergli a posto i cassetti del comò, a prendere fra le mani quel maglione che gli piaceva tanto, la foto della prima comunione, le lettere e i telegrammi di cordoglio... Quel giorno sono morte anche loro eppure è quella morte che le ha tenute in vita, come se lasciarsi andare, cedere, significasse perderlo per sempre, toglierselo anche dal cuore, l’unico posto dove non si muore mai.
Di questo strazio, lancinante eppure quieto, disperato eppure appagato, è pieno Cuori neri (Sperling&Kupfer, pagg. 816, euro 19), il libro che Luca Telese ha costruito mettendo insieme ventuno vittime degli anni di piombo, ventuno ragazzi che non sempre ce la fecero a divenire maggiorenni, morti sprangati, sparati, bruciati, accoltellati. Da Carlo Falvella a Sergio Ramelli, da Mario Zicchieri a Francesco Ciavatta, a Stefano Recchioni l’autore se li è andati a cercare fra quelli che allora erano «la faccia sporca» dell’Italia, i morti di serie B di un Paese impazzito, i neofascisti la cui esistenza più che un diritto era un oltraggio, un bubbone, un caso clinico da asportare prima che infettasse il corpo sano della nazione, ovvero topi di fogna da derattizzare...
Torneremo su questo punto più avanti, ma faremmo comunque un torto a Telese se scegliessimo la chiave ideologico-politica quale lettura del libro. Perché Cuori neri è innanzitutto una sorprendente ricostruzione antropologica, frutto di materiale d’archivio dell’epoca - atti processuali, atti parlamentari, articoli e saggi - e successive interviste, commenti, ricostruzioni ad hoc. Ciò che ne vien fuori è uno spaccato di piccola e media borghesia italiana dove, stante la giovane età di quelle povere vittime, è la famiglia a recitare la parte più importante, quei genitori all’inizio citati per i quali la morte violenta che all’improvviso gli piomba in casa ha l’aspetto atroce e beffardo di un’entità temuta, ma sconosciuta. Nella maggioranza dei casi raccolti con pietà da Telese non c’è un vero e proprio filo rosso che lega le scelte dei figli a quelle dei padri. Per questi ultimi le passioni politiche sono un fastidio e una perdita di tempo, un partito in fondo vale l’altro e tutti poi non valgono niente, conta il lavoro, lo studio, il mettere su casa. La loro parte l’hanno già fatta, hanno combattuto una guerra e l’hanno persa, hanno avuto illusioni e delusioni e tanto basta. Questo alieno un po’ esaltato che si ritrovano in casa, con la febbre da ciclostile e che sogna attacchinaggi e manifesti, cita autori e libri di cui loro non capiscono niente e ignorano tutto, non lo riconoscono, non lo capiscono. In quel decennio si accentua drammaticamente la frattura generazionale, ma mentre a sinistra opera dialetticamente, a destra finisce in un corto circuito: il giovane neofascista dei Settanta non è figlio del fascista dei Cinquanta o dei Sessanta, che politicamente non è mai esistito, ma del moderato, dell’uomo d’ordine, del cosiddetto benpensante che si è ritrovato ad impersonarlo e che in quell’Italia non sentita come sua si è comunque faticosamente ritagliato un proprio spazio. Nelle illusioni del figlio il padre vede il riflesso delle proprie andate in pezzi, e non vuole che la storia si ripeta. Nelle delusioni del padre, il figlio vede il riflesso del sentimento di sconfitta che le ha provocate e vuole che la storia non si ripeta. È un dialogo fra sordi in cui le madri non intervengono, perché poi, specie in quelle case, «la politica è cosa da uomini»; e certo si preoccupano, urlano, minacciano, e però poi lui le fa ridere, e dice che starà attento, che mica è stupido, ed è affettuoso, ed è proprio «un bravo ragazzo», ribelle, sì, ma chi non lo è a quella età «e anche tu un tempo eri così, volevi cambiare il mondo», e poi, «è così bello, è mio figlio»... È anche questo diverso atteggiamento che aiuta a spiegare perché dopo la madre troverà nel culto del figlio scomparso quelle ragioni per andare avanti che al padre invece saranno precluse. Lei si era limitata ad amarlo, sempre e comunque, mentre lui per non averlo capito non era riuscito a salvarlo. La vita è soltanto un cimitero di illusioni.
Sottesa a questa lettura antropologica ce n’è però una che potremmo definire sociologica, non meno significativa e su cui vale la pena soffermarsi. Riguarda la stampa dell’epoca, il giornalismo e i giornalisti degli anni Settanta. A rileggerla oggi si capiscono perfettamente i termini di una questione ancora adesso periodicamente sollevata, la cosiddetta egemonia e/o dittatura culturale della sinistra.
È un dato di fatto pacifico che da un decennio a questa parte la Destra è entrata a pieno titolo nel dibattito intellettuale e politico. Ironicamente potremmo aggiungere che mai si è parlato e ci si è definiti così tanto di destra come da quando la Destra non significa più niente, ma non è questo il punto. Il punto è che alla fine degli anni Sessanta il centrismo e la sinistra socialista e comunista si saldano in una alleanza che nella reciproca legittimazione pone le basi per un capro espiatorio che eviti al primo un’emorragia di voti e alla seconda una contestazione troppo accesa sul versante extraparlamentare. Il Movimento sociale si rivela il candidato più adatto a questo scopo: è un partito di reduci e di vinti segnati dalla storia che cerca di accreditarsi come forza moderata, ha una classe dirigente con l’handicap di non aver mai governato e una base giovanile con conati di ribellismo, non ha una vera e propria strategia, oscillando fra il rifiuto del sistema, la ribellione al sistema e l’unica difesa del sistema stesso. Con la formula parlamentare dell’arco costituzionale, con la pratica giudiziaria della «ricostituzione del disciolto partito fascista» la si consegna al ghetto dei reprobi, degli appestati. Al resto ci penseranno l’immaturità, la stupidità, a volte la delinquenza parapolitica della parte in causa, i depistaggi, le infiltrazioni e i doppi giochi dei corpi separati dello Stato, l’accettazione di un antifascismo militante come elemento democratico di vigilanza. Soprattutto, al resto, ovvero al clima di odio ideologico, ci penserà la stampa.
Delitto dopo delitto Cuori neri consegna al lettore la trama di un Paese dove se la vittima è un ragazzo fascista, innanzitutto non è un ragazzo, perché un fascista non è un essere umano ma il concentrato del Male da estirpare, una non persona, un animale; in secondo luogo non è una vittima, perché se l’è andata a cercare, era un violento, un criminale; in terzo luogo è un «affare fra fasci», è stato bruciato, sprangato, sparato per faide interne. Infine, e comunque, è uno di meno.
L’Italia si ritrova popolata di giornalisti «pistaroli neri», di cronisti della «contro-informazione» a senso unico, di intellettuali dall’appello antifascista fluviale e intransigente: una cloaca di menzogne e infamità si sparge su quotidiani, settimanali, mensili, dilaga sulle radio libere, sommerge collettivi scolastici e universitari. Da questo punto di vista la lettura di Cuori neri è un concentrato di orrori dove campeggiano firme che taciamo più per disprezzo che per carità di patria, oggi addirittura schierate su quel fronte su cui allora vomitarono piombo intellettuale. Ma, l’abbiamo già detto, mai si è parlato e ci si è definiti così tanto di destra come da quando la Destra non significa più niente.
La derubricazione da essere umano a zecca da schiacciare, a topo di fogna da bruciare, permette ogni nefandezza intellettuale. Sindaci che non proclamano il lutto cittadino perché sarebbe «una provocazione», consigli comunali che applaudono alla notizia che il non ragazzo è, finalmente, spirato in ospedale, ministri dell’Interno che raccontano scientemente il falso in Parlamento, avvocati difensori che filosofeggiano sulla incongruità delle chiavi inglesi come armi per uccidere, collettivi teatrali che ironizzano su quelle morti sempre «misteriose», grandi firme che riscrivono con stile sapiente la controstoria di un delitto di cui non sanno nulla ma che, certamente, dev’essere andato come sostengono loro...
È qui che si inserisce un altro elemento di interesse del libro. Telese ha 35 anni, quell’epoca non l’ha vissuta, ma coglie un dato importante quando scrive che «un militante di Autonomia e uno dei Ds si incontrano molto raramente. Un camerata “extraparlamentare” e uno “istituzionale” si combattono, anche con ferocia, ma non rinnegano la loro radice unitaria, la comune memoria dei propri martiri: la sinistra rischia l’oblio, la destra nel suo culto rasenta la superstizione. I “cuori neri” pesano oggi sull’identità della destra più delle memorie del Ventennio: i morti degli anni Settanta restano una pagina non risolta al punto che il partito, oggi, continua a dividersi (a volte schizofrenicamente) tra il culto radicale dei “ragazzi neri” e quello pragmatico del governo».
Il fatto è che fra quelle due esperienze politiche in comune ci sono solo quei morti e qualche giovane dirigente del tempo che fu ormai divenuto ministro. Politicamente non sono spendibili, perché comunque rimandano a un momento tragico del nostro recente passato in cui l’allora Msi ebbe le sue colpe, le sue cecità, i suoi anacronismi, e tuttavia rimangono l’unico elemento identitario di un percorso politico che ha via via cancellato ogni ragione della precedente esistenza. Nella ricerca di una rapida ed efficiente legittimazione, Alleanza nazionale ha optato per la presa d’atto che una memoria condivisa della storia d’Italia non era ancora possibile, che la discriminante antifascista restava un valore, che il placet a poter governare giustificava pragmaticamente l’abiura della propria memoria.
E tuttavia quelle povere vittime rimangono come macigni, funzionano internamente in quanto elemento di continuità, giustificano un «perché ora siamo così» altrimenti incomprensibile nel nome di un «come eravamo» non più ripetibile. Proprio per questo continuano ad essere morti di serie B, sconosciuti e/o dimenticati dal Paese, pur se quel Paese è governato da una forza politica che ebbe quei morti fra le proprie file. Sono riflessioni queste fatte senza spirito polemico, cercando di capire, sperando di trovare una risposta accettabile.

Ma sono riflessioni che permettono anche di spiegare perché, ancora adesso, ci sia fra i ventenni «topi di fogna» di allora chi continui a celebrare privatamente una propria liturgia laica di date, di nomi, di appuntamenti, nella quale non fa breccia quella dell’Italia ufficiale, esuli ancora una volta e ormai per sempre di una patria che, ahimé, non è la loro.

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