Quei teoremi inventati dai pm che ribaltano la verità dei fatti

Due ragazze disposte a prostituirsi vengono fatte passare per vittime del premier. E Bisignani viene costretto a dire che agiva per interesse, non per convinzione politica

Quei teoremi inventati dai pm che ribaltano la verità dei fatti

In uno Stato non di diritto tutte le cose non hanno il loro nome. Le vittime appaiono carnefici, e i carnefici vittime. I giudici compiono i reati e gli innocenti vengono processati. È mai possibile che su giornali che dovrebbero raccontare i fatti si leggano ricostruzioni palesemente false o inventate, in virtù dell’interpretazione e della ricostruzione di alcuni magistrati che mentono non chiamando le cose con il loro nome? Da una parte si legge: «Ad Arcore il bordello del premier. Il magistrato dice che non intendeva dirlo». Ma l’ha detto. E così il giornalista ha inteso. Da un’altra parte si legge: «Ambra e Chiara vittime di Arcore, costrette da Fede ai party col premier». È vero? No, è falso. Ma quella che noi leggiamo è l’interpretazione di una giudice, Maria Grazia Domanico, che accoglie, e offre loro lo strumento della legge, l’evidente strumentalizzazione di due ragazze facendole passare per vittime di una macchinazione inesistente da semplici invitate a cena, che dopo qualche mese denunciano di aver sofferto per trarre vantaggio da una situazione dalla quale non hanno tratto i benefici sperati. E allora ecco mettere sul mercato il loro stato d’animo, trovando facile ascolto, nel loro evidente travestimento.
Non ci si vuol credere: nessuno ha chiesto loro niente eppure esse, procaci e provocanti ai concorsi di bellezza, si mostrano castigate, mutano d’abito e, per essere state a una cena, ignorate e non sollecitate a nessuna azione o prestazione, lamentano «un danno d’immagine e perfino patrimoniale, con conseguente caduta delle opportunità lavorative, costituito dalla profonda sofferenza subita per essere state considerate al pari di meretrici». Una pura invenzione, contro ogni evidenza, e smentita da una delle «sconvolte» che, come il Giornale ha raccontato, si era veramente venduta, minorenne, a un ricco imprenditore ultrasessantenne in cambio di migliaia di euro come tariffa per i rapporti sessuali e con la dotazione di un appartamento.
Scrive bene una donna che ama le donne, Maria Giovanna Maglie: «Mi dispiace, le vittime, le donne vittime, sono altre. Se il gup, che è una donna, ha creduto di fare una bella cosa femminista, ha sbagliato due volte». Si può dunque ritenere che sia stata considerata «al pari di meretrice» chi è meretrice? Nei fatti è avvenuto l’opposto: non è stata considerata al pari di una meretrice chi era disponibile ad esserlo. Eccole dunque travestite da vittime, con l’aggravante di mortificare al ruolo di «fidelizzatore» un vecchio giornalista che ha portato a cena due ragazze dal più importante imprenditore televisivo della nazione, dal quale sarebbero ovviamente corse per ottenere qualche vantaggio che non hanno avuto.
Le disgraziate (non sventurate) risposero. E questa è la frontiera milanese dove lo Stato è piegato nel rituale della falsificazione dei fatti e il presidente del Consiglio è offeso, dileggiato, trattato come un vecchio mal vissuto che trasforma la propria casa in bordello. Mi pare sufficientemente diffamatorio contro la persona e contro la funzione per imporre al capo dello Stato un’insorgenza morale, in difesa dell’evidenza. Ed entriamo nel merito. È un reato mantenere una donna? È un reato mantenere due donne? È un reato mantenere tre donne? È un reato mantenere quattro donne? È un reato mantenere cinque donne? Non è evidente che quelle chiamate, e insultate, prostitute sono amiche che decidono della loro vita e possono essere mantenute come altrettante amanti in rapporto non all’etica cristiana, ma alla liberalità, al piacere, al divertimento di un uomo potente che decide della propria vita, dei propri piaceri e dei propri divertimenti? Chi si può permettere una barca, case in diversi luoghi del mondo potrà decidere di mantenere chi gli pare?
E potremo pretendere che il giudizio morale non determini un’inchiesta giudiziaria senza fondamento, che trasforma il piacere in reato, la generosità in prostituzione? Potevano Pasolini, Visconti, Moravia vivere come volevano? O dovevano rispondere a un tribunale del popolo e vedere chiamati i loro amici e le loro amiche puttane? Qui non è in gioco la privacy, ma la vita. La decisione di ognuno, e di ognuna, di viverla come vuole, anche per puro piacere e per puro interesse. Quante sono le donne (e gli uomini) mantenuti in Italia? È un reato? E aspirare a esserlo è meretricio?
L’altra frontiera di rovesciamento della verità e di violenza pubblica e privata è, come è evidente, l’inchiesta sulla cosiddetta P4 (associazione segreta alla quale nessuno sapeva di appartenere, e denominata in tal modo dai magistrati per insinuare una relazione con la infamante P2). Nulla, se non i teoremi dei magistrati in una parossistica esibizione di stupidaggini, e, ancora, il ribaltamento della verità. Il magistrato chiede perché Bisignani dava consigli, perché cercava di sostenere la maggioranza di governo. E arriva la domanda finale, rivelatrice: «Ma ci vuole spiegare qual era il suo interesse in tutto questo?». Ecco la chiave di tutto. Per avere o sostenere un’idea politica per magistrati come questo occorre un interesse. Non si può avere un’idea senza interesse? Essere convinti che una parte (come pensano quelli iscritti a un «partito») è meglio dell’altra? Non si possono più avere idee politiche perché ci si crede?
Bisignani come tanti a destra e a sinistra poteva non agire per interesse ma per convinzione. Ma la magistratura decide. E i magistrati insistono, intimidiscono. Così che quando Bisignani dopo tanti nomi deve fare anche quelli di qualcuno di loro, il suo tono si fa felpato e preoccupato. Ed è a tal punto intimidito da chiedere scusa: «Avevo fatto il nome di un serissimo magistrato di Bari (Laudati) e chiedo scusa, ma devo continuare a fare dei nomi che ho fatto nella più totale buona fede», eccolo mettere le mani avanti. E infine chiudere: «C’era Arcibaldo Miller, che era amico suo, e, diceva Papa, anche del dottor Woodcock... Mi dispiace».

Con gli elementi che abbiamo e l’inchiesta per contagio, Woodcock dovrebbe allargare l’indagine anche a se stesso. Mi dispiace... la legge è uguale per tutti. Ma quando si tratta di magistrati Bisignani o non è attendibile, o ha paura. Così va il mondo tra Milano e Napoli. Ovunque immondizia.

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