La quindicennale esperienza di Alessandro Profumo al vertice di Unicredit, salvo sorprese dell’ultima ora, è arrivata al capolinea dopo almeno sei mesi di rincorrersi di voci sulle sue dimissioni. Sarebbe la vittima italiana più illustre della crisi finanziaria. Ma almeno in parte il 53enne banchiere genovese, entrato nel 1994 nel Credito Italiano e poi protagonista della crescita del gruppo diventata, nel 2007, la seconda banca europea, in questi ultimi anni si è complicato la vita da sé. Da tempo Profumo si era trovato isolato, inviso sia ai soci-fondazioni come la Cariverona di Paolo Biasi, che già dalla crisi dell’autunno 2008 erano diventati critici sulla gestione della banca; sia a quelli tradizionalmente più morbidi come l’ente Crt, rappresentata dal grande mediatore Fabrizio Palenzona; sia ad alcuni degli azionisti privati come Luigi Maramotti e Carlo Pesenti, che hanno cominciato ad alzare la voce in occasione delle recenti scelte strategiche legate alla riorganizzazione del gruppo. Infine anche il rapporto con il presidente Dieter Rampl, personaggio gentile e disponibile, sempre pronto a smussare le durezze del suo ceo, si è malamente incrinato per la questione della salita dei libici nel capitale della banca, avvenuta quest’estate senza che nessuno ne fosse stato avvertito. In tutti i casi al numero uno di Piazza Cordusio veniva rimproverata l’«arrogance» (un vecchio soprannome che la dice lunga) di non voler condividere nulla. «Profumo si è fatto male da solo», dice un protagonista delle vicende finanziarie milanesi. Di sicuro il manager aveva deciso di dare alla sua leadership bancaria un profilo originale per il sistema italiano fatto di salotti buoni e intrecci con la politica. Da questi l’interista banchiere aveva scelto di stare alla larga, e lo aveva fatto idealmente a partire dal 2004, dimettendosi dal cda del Corriere della Sera e vendendo l’1% di Rcs proprio quando nell’azionariato di via Solferino entravano Geronzi, Ligresti e Della Valle. In realtà l’«impolitica » di Profumo, del quale fece notizia la partecipazione alle primarie dell’Ulivo di Romano Prodi del 2005, copriva una ben precisa «politica », di stampo prodiano: quel bancocentrismo secondo il quale il potere fa leva sui grandi gruppi creditizi in un rapporto in qualche modo autoreferenziale. Uno schema che funzionava nell’era post-privatizzazioni perché permetteva ai banchieri di guadagnarsi la propria autonomia attraverso il raggiungimento di grandi risultati. E Profumo lo ha fatto soprattutto utilizzando le leve della finanza. Ma la crisi del 2008-2009 ha cambiato il quadro e lo ha indebolito senza che riuscisse a cambiare passo. Il titolo Unicredit è scivolato da 7 a 2 euro. La banca ha richiesto, tra capitale e bond, quasi 10 miliardi ai suoi azionisti. I manager si sono trovati in un mondo diverso, dove per tornare a pesare sul mercato era necessario costruire un rapporto solido e producente con gli azionisti. Che, nel caso di Unicredit, tornavano a essere parenti prossimi con la politica. Una situazione che il ceo non ha saputo gestire con pieno controllo. Sottovalutando anche il ruolo della comunicazione. L’atteggiamento di impolitica meritava un’evoluzione per tenere conto del nuovo scenario. Invece niente. E come nei tempi delle acquisizioni in Germania e in tutta l’Est Europa la banca si era dimostrata una macchina da gol, così la «fase difensiva» si è rivelata un punto debole. La vicenda dei libici, chiamati a puntellare il capitale di Unicredit, è solo l’ultima puntata di questa storia.
Ed è forse paradossale che possa costare il posto a Profumo, la cui colpa è stata sempre la stessa: di non essersi impegnato nel far digerire la pillola agli altri soci. In verità la minaccia all’Unicredit italiana non arriverà mai da Tripoli. Semmai potrebbe arrivare dal nord: dai soci tedeschi finora tenuti buoni proprio dallo stesso Profumo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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