Politica

Quell’élite che non vuole cambiare

Quell’élite che non vuole cambiare

Leggere Giovanni Sartori, come ieri sul Corriere della Sera, è divertente. Se ne gusta l'arguzia e si crepa d'invidia per la padronanza con cui questi toscani dominano la lingua italiana. Però affidarsi mani e piedi a un tecnico anche di vaglia per risolvere i problemi della politica, è come per un fidanzato far decidere le sue cose d'amore da un sessuologo. Per chi è incantato da un'anima gemella è magari utile sapere come funziona un clitoride o una prostata, ma la questione decisiva è conoscere che cosa gli comanda il cuore.
Così in politica gli studiosi della materia danno strumenti tecnici non disprezzabili per scegliere con intelligenza, ma sono la passione, la storia, la visione, i principi e gli interessi che indicano la via. Chi esamina le vicende dell'ultimo quindicennio, deve ragionare innanzi tutto sul tentativo di élite senza popolo (ambienti della magistratura, del giornalismo, e dell'economia) d'intendersi con il popolo comunista (orbato dei propri ideali) per imbragare la società in una gabbia senza più dialettica. Dove per fare politica (ma anche per partecipare alla comunità finanziaria a un certo livello) vi sarebbe stato bisogno di un patentino, dato a pochi e distribuito da pochissimi. Questa è stata la trama intessuta alla fine della Prima Repubblica ed è su questa che sono intervenuti maggioritario, creazione e sopravvivenza di nuovi e vecchi partiti, e tante altre vicende economiche, politiche e legislative.
Chi riduce la storia italiana più recente al funzionamento del meccanismo elettorale, scambia la cornice per il quadro. Il vero dramma storico dell'Italia è da sempre la difficoltà da una parte di far decollare un grande partito (e uno schieramento a questo collegato) conservatore, borghese, popolarliberale analogo a quelli che esistono in tutta Europa. Dall'altra di costruire una formazione politica che saldi la lotta d'emancipazione delle classi lavoratrici all'impegno progressista di ampi settori d'intellettuali e professionisti. Anche la nostra sinistra infatti, per la lunga prevalenza di una cultura rivoluzionaria su quella riformista, è difforme da quella del resto del continente.
Il maggioritario, alla fine, è stato un mezzo per tentare di adeguare il Paese a consuetudini occidentali. Ma questo sistema elettorale ha funzionato, sia pure in parte, soprattutto per un fattore soggettivo: perché Silvio Berlusconi non ha accettato supinamente le iniziative mediatico-giudiziarie di escluderlo, e di contenere la dialettica politica in ristrette e consociate élite.
Alla fine il maggioritario è saltato nelle forme attuali perché le solite élite hanno cercato negli ultimi mesi di eliminare dalla scena il centrodestra possibile: in questo senso va interpretato il lavorio per contrapporre Udc a Lega, An e Forza Italia. Così il Paese sarebbe precipitato in una situazione senza alternative.
Il proporzionale corretto con meccanismi maggioritari è stata la forma possibile per riproporre una convergenza tra forze politiche e basi sociali del centrodestra. Questo è il processo fondamentale su cui riflettere, che naturalmente deve evolvere verso esiti politici più maturi da tradurre anche in sistemi elettorali e istituzionali più efficaci. Ma è stato, comunque, opportuno che la coerenza alla missione storica prevalesse sulla fedeltà a particolari tecniche elettorali. L'idea di partire dal tetto invece che dalle fondamenta per costruire un edificio è segno, se in buona fede, di astrattezza.

In molti casi mostra invece la volontà delle consolidate élite, di cui si scrive, di non rinunciare al loro chiusissimo sistema d'influenza e di potere.

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