Politica

«Quella casa era una trappola e Israele non doveva caderci»

Marcello Foa

È uno stratega raffinato e un militare d’esperienza. Ha comandato per un anno la Forza internazionale di sicurezza in Kosovo, è stato capo di Stato Maggiore Nato delle Forze Alleate del Sud Europa: il generale del Corpo d’Armata Fabio Mini è uno degli esperti più qualificati per valutare quel che sta accadendo in Libano, anche alle luce del possibile intervento militare italiano.
Generale Mini, l’opinione pubblica mondiale è sotto choc per la strage di Cana. Per Israele è un duro colpo d’immagine...
«Certo, tanto più che dal punto di vista militare quel raid non era necessario. Quella casa nascondeva verosimilmente un arsenale, ma era davvero indispensabile colpirla? Vale di più salvaguardare la vita di donne e bambini o distruggere qualche bomba? La realtà è che si trattava di una trappola in cui Israele non doveva cadere, perché sin dall’inizio di questo conflitto la strategia degli Hezbollah è incentrata sulla provocazione».
A che cosa mirano i guerriglieri sciiti?
«Dal punto di vista militare non c’è confronto tra Israele e gli Hezbollah, ma la grande risorsa dei terroristi è la capacità di provocare la reazione di un avversario molto più potente di loro. La provocazione è l’arma fondamentale con la quale si possono scatenare dei conflitti. Il problema del Sud del Libano non è nato ieri e di scaramucce al confine ce ne sono sempre state, però è bastato il rapimento di due soldati a scatenare una reazione enorme, eccessiva, dello Stato ebraico. Questa è la vera forza del terrorismo. Ci sono riusciti il 12 luglio e ancora ieri con l’orribile strage di Cana. Quando sai che il tuo nemico usa queste tattiche, devi evitare di fare il suo gioco. Israele ha sbagliato sia dal punto di vista umanitario sia politico».
Nel mondo arabo c’è già chi dice: la guerra dura da venti giorni ma Olmert non riesce a piegare gli Hezbollah. Il mito dell’invincibilità di Israele è infranto?
«Assolutamente no. In realtà finora il potenziale militare di Israele è stato usato solo in minima parte. Per cui non si è dimostrato assolutamente niente».
Ma perché Israele non riesce a piegare un gruppo terrorista?
«Secondo me per un calcolo politico. La vittoria tarda perché Israele non ha dimostrato la volontà di affondare i colpi. È una questione di strategia: non vuole subire perdite con una penetrazione di terra che comporterebbe rischi molto alti».
Non vuole affondare i colpi? Ma i danni inferti sono enormi...
«Certo è l’aspetto paradossale di questa crisi. Se Israele applicasse in un giorno un decimo della forza di cui dispone, distruggerebbe completamente il Libano. E questo solo in ambito convenzionale, senza contare gli armamenti nucleari. Il divario tra la potenza di Israele e la capacità difensiva degli Hezbollah, è enorme. Impressiona il fatto che usando solo una piccola parte delle sue capacità abbia provocato distruzioni sostanziali».
E a che cosa mira Israele?
«Io penso che se a Israele venisse offerta una contropartita credibile sarebbe disposta a fermare le attività belliche. Ma in cambio di una contropartita credibile. Ecco perché ritengo che la mossa degli Stati Uniti di non chiedere un cessate-il-fuoco immediato, ma di porre le basi per una tregua duratura, sia proprio quel che Israele vuole».
Eppure gli obiettivi strategici di Israele sembrano essere altri, ad esempio la Siria...
«L’aver bombardato le infrastrutture in questa maniera, dimostra secondo me in maniera molto chiara che il vero obiettivo degli israeliani non è né Hezbollah, né lo stesso Libano. Secondo me, attraverso il Libano, si vuole colpire la Siria. Siccome il Paese dei Cedri è un territorio molto sensibile all’influenza di Damasco, un Libano distrutto e strutturalmente incapace di essere uno Stato sovrano nell’area del Medio Oriente rappresenta uno scopo politico e anche fisico molto importante».
In queste ore l’Onu esamina la costituzione di una Forza di pace da spiegare nel Sud del Libano. Ma questa ipotesi è ancora credibile?
«Sì. Il punto è: quando parte? Più si ritarda e più la situazione è compromessa. Ed è un’azione delicata, di peaceenforcing, e sarebbe bene che ci fosse un accordo anche minimo tra le parti. Ma chi sono le parti che si dovrebbero mettere d’accordo sulla tregua? Gli stessi Stati Uniti vogliano come interlocutori solo Israele e Libano, lasciando fuori gli Hezbollah. Ma prima o poi bisognerà parlare anche con loro. Perché se non sono tutti d’accordo sulla forza di interposizione, la missione rischia di finire malissimo. Ricordiamoci le stragi di Beirut dell’84».
L’Italia ha chiesto di guidare la forza di pace. Ci conviene davvero?
«Dipende. Se si tratta di un comando politico forse sì, anche perché il nuovo governo ha po’ più di credibilità rispetto ad altri Paesi nei confronti del mondo arabo e palestinese. Ma se la guida deve essere anche tecnica-militare e una guida con apparati di comando e controllo, temo che da soli sarebbe molto difficile: non abbiamo le strutture per farlo. Quel che è importante è che la Forza internazionale, chiunque la guidi, sia davvero credibile».
marcello.

foa@ilgiornale.it

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