Quella magica e preistorica lingua riscoperta da Bernardo Atxaga

Lo scrittore basco che ha trasformato l’«euskara» in un successo editoriale

Bernardo Atxaga (fuor di pseudonimo: Joseba Irazu Garmendia) è un fuoriquota. Un’eccezione, un «caso». La negazione in carne ossa e libri del teorema secondo cui scrivere in euskara, in basco, sia una velleità destinata al naufragio commerciale, un esercizio conservativo e sterile. Atxaga, che è nato nel 1951 ad Asteasu, nella provincia di Gipuzkoa, scrive in euskara, viene tradotto (o si autotraduce) in spagnolo e poi viene pubblicato in una ventina di altre lingue. E soprattutto vende. Il critico Jon Kortázar Uriarte ha scritto che Atxaga «risulta un caso particolare, nella misura in cui è stato capace di esportare la sua letteratura e vivere di diritti d’autore». In Italia sono appena usciti un romanzone, Il libro di mio fratello (Einaudi, pagg. 393, euro 19), e un racconto nell’antologia Pintxos (Gran Vía, pagg 220, euro 16) ad arricchire la biblioteca «atxagiana» nella nostra lingua. Una biblioteca fatta di romanzi, racconti, libri per ragazzi, poesie... Una biblioteca che lo ha reso il re incontrastato di un idioma che è l’ultimo relitto continentale delle lingue preindoeuropee. Così scriveva Atxaga nel prologo all’edizione italiana del suo Obabakoak, uscito per Einaudi: «Scrivo in una lingua strana. Le sue forme verbali, la struttura delle sue proposizioni relative, le voci con le quali designa le cose antiche - i fiumi, le piante, gli uccelli -, non hanno sorelle in nessun luogo della terra. Casa si dice etxe; ape, erle; morte, heriots; il sole d’inverno, eguzki o eki; il sole di primavera o di estate, anch’esso - com’è ovvio - eguzki o eki (È una lingua strana, ma non tanto)».
Senza mai rinunciare a raccontare il mondo rurale, «le cose antiche» di cui sopra, Atxaga è uno scrittore capace di misurarsi anche con la città e la modernità. Il suo è un caleidoscopio narrativo a incastro, con un centro gravitazionale che gli conferisce un’identità e una compattezza di fondo: il paese di Obaba. Luogo immaginario in cui si specchia un po’ la sua Asteasu natale e un po’ il paesaggio interiore dell’autore. Il risultato è che quando esce un suo nuovo libro, i baschi affollano le librerie, come chiamati da un piffero magico. E così la versione in euskara de Il libro di mio fratello ha venduto 25 mila copie. Un’enormità rispetto al bacino di lettori potenziali, calcolabile in poche centinaia di migliaia. Passano gli anni e i riccioli di Atxaga si diradano e si imbiancano. Intanto è cresciuta una pattuglia di autori formati sgualcendo le pagine dei suoi volumi. Tra loro il giovane Unai Elorriaga, classe 1973, che è riuscito ad assicurare al suo romanzo SPrako tranbia (Un tram a S.P. in uscita in Italia per i tipi di Gran Vía) il Premio nazionale di narrativa spagnolo del 2002 e un ottimo successo di vendite.

Elorriaga non può però strappare ad Atxaga lo scettro di nume tutelare degli scrittori baschi. Il ruolo, insomma, di punto di riferimento per tutti che Atxaga esercita senza complessi né sventolio di vessilli identitari.

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