Lorenzo Arruga
Sting canta Dowland. Sting, lo sappiamo tutti, è un personaggio carismatico che entra ed esce dal rock con autorità e distinzione; tutti coloro che si interessano ai fenomeni musicali doggi lo hanno come punto di riferimento. Dowland invece è un cantore, poeta e liutista del tempo della Regina Elisabetta e del suo mondo. Canta le bellezze della vita, gli entusiasmi e i desideri, persino le città e le cose dellItalia e in tutto infonde una sua strana e catturante malinconia.
Quale poteva essere la sorte di un disco così? Una attualizzazione libera e fantasiosa, o unimmersione in un mondo perduto? Sting è sembrato spesso agli ascoltatori una voce antica prestata al rock, e cera da aspettarsi di tutto.
Ai primi ascolti, ne è uscita però una cosa un po composita. Già la registrazione della voce e del liuto a stretto contatto del microfono, tanto da mettere in rilievo il respiro e lo scivolare delle dita sulle corde, ha qualcosa di intimo e di artificiale nello stesso tempo. Ma curioso e particolare sembra il cammino di Sting verso queste interpretazioni: ci offre i testi con una colloquialità modernissima, ma indugia in certi caratteri che oggi contraddistinguono il recupero della scuola antica, del Seicento in particolare, come per esempio la «messa in voce», cioè quelle note fisse che crescono in intensità e poi diminuiscono.
Così, è difficile definire con chiarezza le scelte di questo personaggio razionale e inquieto della musica doggi: Sting sembra quasi costantemente sorpreso da ciò che deve dire e cantare, dalla varietà necessaria del fraseggio, che segue ritmi liberi e si muove vago fra una tonalità e laltra, senza mai nulla di dirompente, e la logica dei colori che non basterebbero mai ma non possono mai essere forzati. Il liutista è un estroso russo, Edin Karamazov, che lo stimola con impulsi fantasiosi, e forse talora lo sconcerta anche un poco.
Da questa incertezza o precarietà, soprattutto da questo stupore, alla lunga però nasce anche il grande fascino di questo disco.
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