Quelle indagini finite in buchi tecnologici

Stefano Zurlo

da Milano

Sassi dal cavalcavia, delitti atroci e feroci, perfino bambini spariti. Il lugubre catalogo degli orrori senza soluzione corre da un capo all’altro del Paese e si possono solo pescare alcuni casi campione per la più scontata delle diagnosi: qualcosa non funziona nell’apparato investigativo tricolore.
Partiamo da uno degli ultimi e più raccapriccianti fatti di cronaca, avvenuti la notte del 12 agosto sull’A1, fra Cassino e Pontecorvo. Un masso del peso di 41 chili precipita sulle auto in corsa. «Nella carambola che segue un operaio di 46 anni, Natale Gioffrè, muore. Chi è stato? Le indagini imboccano la via, ormai canonica da qualche anno in qua, dei telefonini. Si cerca di capire quali apparecchi erano nella zona in quel momento, si studiano i tabulati. La Procura di Cassino punta su un gruppo di ragazzi dei dintorni. Ma finora, per quanto se ne sa, la situazione è in perfetto stallo. Dai sospetti non si è riusciti a passare agli indizi. Stallo. Se ci si sposta di pochi chilometri, ad Arce, occorre ripetere la stessa parola. Era l’estate del 2001, una giovane studentessa, Serena Mollicone, fu barbaramente uccisa e abbandonata incaprettata in un bosco. Un delitto che colpì l’opinione pubblica. Un delitto,al momento, irrisolto. «Mancano ancora alcuni tasselli per chiudere il cerchio», aveva detto sedici giorni dopo l’omicidio il Procuratore di Cassino, lo stesso del cavalcavia, Gianfranco Izzo. I magistrati hanno portato sul banco degli imputati un carrozziere, la corte d’assise l’ha assolto. A gennaio ci sarà l’appello, ma c’è il rischio, che l’assassino, chiunque sia, la faccia franca. Esattamente come chi ha impugnato una mannaia e ha massacrato - è questo, tecnicamente, il verbo da usare - i coniugi Masi nella notte fra il 1 e il 2 giugno in una villa di di Nereto (Teramo). Masi era molto noto in Abruzzo, anche come governatore regionale dello Slowfood, e senza precedenti. Un crimine apparentemente inspiegabile, avvenuto in linea d’aria a non più di sessanta metri dalla piazza del paese. Nei giorni successivi, il procuratore Cristoforo Barrasso lancia a colpi di interviste la pista della rapina tentata da qualche extracomunitario. I carabinieri paiono poco convinti, l’indagine langue, poi si arena. I quotidiani nazionali, dopo una prima fiammata di interesse, hanno archiviato il caso. Torneranno ciclicamente ad occuparsene, come si fa di tanto in tanto per i grandi delitti irrisolti, dall’Olgiata a via Poma, o per altri casi aperti: uno per tutti la scomparsa a Mazara del Vallo della piccola Denise. Era settembre dell’anno scorso e da allora non se ne sa più nulla. Sconfortante.
«Eppure - nota il criminologo Francesco Bruno - il nostro apparato investigativo conta, se sommiamo tutte le polizie, più di mezzo milione di uomini. Numeri che non hanno riscontro negli altri paesi europei». E allora, come mai i nostri Maigret arrancano? «Sono male organizzati - risponde Bruno - quelli che indagano non sono più di 10mila. E poi è venuta meno quella capacità di leggere il territorio che un tempo era la forza dei nostri detective, cominciando dai marescialli di paese. Oggi ci si butta sui telefonini, sui tabulati, e si rinuncia ad andare in giro, si è perso il rapporto con la gente, non si torna sul luogo del delitto ad interrogare il panettiere, il lattaio, il vicino di casa. Oggi ci si siede sulla tecnologia, si cerca lì la soluzione e si trascura tutto il resto. Anche perché la società si è fatta più impenetrabile, più sfuggente: pure i confidenti fanno fatica a penetrarla». Non basta.

«Il nuovo codice del 1989 ha messo il Pm a capo delle forze dell’ordine - aggiunge Bruno - così un magistrato diventa per legge super investigatore e comanda polizia e carabinieri». Col risultato che nessuno fa più il suo lavoro.

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