Quercia sull’orlo di una crisi di coscienza

Parliamo del «caso Rossi»: Nicola Rossi, economista cinquantacinquenne, docente universitario, con un solido percorso culturale (London School of Economics, Servizio Studi Bankitalia, Fondo monetario), iscritto ai Ds da una decina d’anni, deputato, già membro degli staff di D’Alema e Fassino, ora dimissionario con una lettera onestamente motivata: «Nulla di traumatico - dice tentando di sminuirne l’impatto politico - ma semplicemente la constatazione che il rapporto tra me e i Ds è oggi più che altro improntato se non a una sostanziale estraneità quanto meno ad un’evidente distanza. Distanza di cui è forse arrivato il momento di prendere anche formalmente atto». Ha poi precisato per dare chiarezza inequivocabile alla decisione: «Sul terreno riformista la sinistra ha esaurito le energie».
Un caso che va esaminato con rispetto ma anche con schiettezza. È esemplare del malessere e delle inquietudini in cui si dibatte la sinistra, almeno quella che, crollato l’impero sovietico e disfatto il mito del paradiso marxiano, da quasi vent’anni va cercando di darsi una nuova cultura e una nuova immagine politica.
Una vicenda storica, potremmo dire perché non ne sono protagoniste solo singole individualità ma una grossa collettività, un popolo che, assai più dei vertici politici e di intellettuali organicamente impegnati, ha vissuto, e tuttora vive, con tormento il passaggio al nuovo corso, in contrasto peraltro con una piccola robusta fazione (i casi Bertinotti e Diliberto) ancora attaccata ad un passato che non c’è più.
Il caso Rossi dimostra innanzitutto quanto grande sia stato l’errore degli ex comunisti di aver rifiutato orgogliosamente di sottoporsi ad un esame di coscienza, una Bad Godesberg come quella che disintossicò la sinistra tedesca. L’avessero fatto, a costo di una scissione vera dall’ala radicale, come forse aveva sperato Craxi, ci sarebbe oggi in Italia un forte partito socialdemocratico e, chissà, magari a destra un consistente partito liberale, sicché avremmo avuto finalmente una competizione politica di alta civiltà, dove personaggi come Rossi, affiancati, che so, da giovani come Polito, Caldarola, Umberto Ranieri e intellettuali come quelli che liberamente esprimono il loro pensiero sul Riformista, con l’intelligente guarentigia di «ex» come Emanuele Macaluso, certamente avrebbero dato corpo ad una sinistra nuova «liberal», diciamolo pure.
Definire «liberale» questo interessante piccolo mondo della sinistra riformista non è appropriato né corretto. Dire riformisti non è la stessa cosa che dire liberali. Autorevolmente avrebbe potuto spiegarne la differenza Nicola Matteucci, grande coscienza liberale, e magari Dario Antiseri, lo studioso che ci ha fatto scoprire Popper.
Non dirò, come ha fatto Michele Salvati sul Corriere citando il libro di Serge Halimi, che dire «sinistra liberale» è addirittura un ossimoro, cioè un’assurdità, però non si può ignorare che ci vogliono troppi compromessi per tenere insieme due concezioni politiche storicamente e ideologicamente contrastanti. Lo dimostra tuttora, mi pare, il caso Rossi. Se è stato difficile per un riformista convivere con l’attuale sinistra, immaginiamo che accadrebbe se un liberale, coerente con la sua cultura politica e seriamente motivato, ci provasse.
M’è capitato in questi ultimi anni di leggere, con interesse, i libri di D’Alema e Fassino. In quelle pagine c’è sfoggio di democrazia e riformismo. Ma dove sono le conseguenze? Indiscutibilmente è finita come finì quando Berlinguer prese le distanze (solo verbali, però) dal sovietismo.
Si sperò allora - lo sperammo anche noi liberali - che ne venisse davvero una Bad Godesberg italiana. No, purtroppo, non c’è stata.

E a che cosa hanno portato finora gli sforzi, taluni generosi, di ex comunisti decisi ad indossare abiti nuovi come vuole l’Italia ormai lontana da quella vecchia della lotta e dell’odio di classe? Perdinci, quanto ci vorrà perché il cambiamento, quello sì rivoluzionario, si verifichi?

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