Anna Maria Greco
da Roma
Nicola Perone è uno dei nostri cervelli emigrati negli Usa. In Texas è arrivato negli anni ’70 e ora è presidente della Società degli Ostetrici e Ginecologi di Houston: non era mai successo che un medico italiano guidasse questa prestigiosa organizzazione nata 50 anni fa. Perone insegna all’University of Texas di Houston, sede del più grande policlinico del mondo e anche lui potrà votare il 12 e 13 giugno per il referendum. Sarà la prima volta per tutti gli emigrati italiani all’estero, che negli Usa sono circa 270 mila.
Professore, che cosa pensa di questa chiamata alle urne e qual è l’orientamento nella vostra comunità?
«In questi giorni tanti mi chiedono informazioni sulla riproduzione assistita e ho l’impressione che la maggior parte degli italiani qui residenti non abbia una conoscenza sufficiente sui quesiti referendari per esprimere un voto informato. La legge 40 come tutte le leggi è imperfetta, ma per una persona media è molto difficile capire una materia così delicata e dunque non mi sembra opportuno fare un referendum per modificarla. Tuttavia, non volendo rinunciare al voto per corrispondenza che per noi rappresenta una novità, credo che molti risolveranno il dilemma votando scheda bianca. Mi sembra difficile che stavolta si raggiunga il quorum, comunque anch’io voterò. Vorrei aggiungere che in America non si sarebbe fatto ricorso al referendum per ritoccare una legge così. Data la natura complessa delle questioni di bioetica connesse e in considerazione del rispetto che c’è per il Parlamento, sarebbe ricaduto su quest’ultimo il compito di migliorare le norme che ha promulgato, pur avvalendosi dell’opinione di tutti gli esperti necessari attraverso i Congressional Hearings».
Dal suo particolare osservatorio come valuta la legge sulla fecondazione assistita?
«Una legge come la 40 qui in America non sarebbe mai stata fatta e non perché gli americani non diano importanza ai problemi di bioetica (ci sono commissioni obbligatoriamente in tutti gli ospedali), ma perché qui non c’è mai stata una deregolamentazione nel campo della fecondazione assistita come quella che si è vista in Italia e che ha reso necessaria la legge. La situazione è molto diversa per almeno due ragioni. La prima è l’alto livello di preparazione professionale richiesto per esercitare in questo campo. Contrariamente a quello che succede in Italia, negli Usa un semplice specializzato in Ostetricia e Ginecologia non può occuparsi di fertilizzazione in vitro. Occorre una specializzazione, oltre a quella in Ostetricia e Ginecologia, in Medicina Riproduttiva. E non basta il pezzo di carta: ci vuole anche la certificazione di un organismo nazionale (Board), che attesti la capacità professionale. Anche il biologo che si occupa della selezione degli ovociti e dell’inseminazione non è un semplice laureato in Biologia ma un PhD in Biologia, cioè ha diversi anni di esperienza nel campo della riproduzione umana. La seconda ragione è che i centri di fecondazione assistita sono strettamente controllati. Per permettere alle pazienti di scegliere oculatamente dove rivolgersi, ciascuno deve fornire al ministero della Sanità i propri dati (non il semplice numero di gravidanze, ma numero di bambini nati), che vengono pubblicati e verificati periodicamente da ispettori, con un attento scrutinio delle cartelle cliniche. Questo è un esempio che l’Italia dovrebbe seguire. Invece, per far fronte al Far West tollerato troppo a lungo si è preferita una legge restrittiva, esposta inevitabilmente a critiche».
Ci parli dell’importanza della ricerca sulle cellule staminali.
«Negli Usa questa ricerca si ritiene inevitabile, ma il dibattito riguarda la distinzione tra adulte ed embrionali e l’uso di fondi pubblici a tale scopo. Il presidente Bush e la maggioranza conservatrice sono contrari a quella sulle staminali embrionali e i finanziamenti statali sono stati bloccati, tranne per circa 19 culture cellulari già esistenti. Solo in California una legge consente anche questo tipo di ricerca con fondi pubblici. Ma l’attività maggiore negli Usa è quella privata e in questo settore non c’è limite alla ricerca sulle staminali sia adulte sia embrionali, anche perché c’è dietro un importante risvolto economico».
Condivide le preoccupazioni su questo tipo di ricerca?
«L’uso di embrioni congelati per ottenere cellule staminali viene osteggiato da molti perché è visto come l’inizio di un cammino scientifico potenzialmente pericoloso. Penso che la ricerca sulle staminali embrionali debba procedere con estrema cautela, cercando cioè di non trascurare principi fondamentali di bioetica mentre ci si avventura in questa nuova frontiera, ed evitando di indurre nella falsa speranza di terapie in tempi brevi chi soffre di malattie degenerative come il Parkinson».
Vuol dire che ci vorrà molto tempo e che i risultati non sono scontati?
«Per capire come guidare il processo riproduttivo che dalle cellule staminali porta al tipo cellulare di cui il particolare malato ha bisogno, e poi per capire come meglio trapiantare tali cellule nell’organo malato (cervello, cuore, fegato, ad esempio), ci vorranno anni di ricerca assidua e finché non si riuscirà a raggiungere tali traguardi le speranze terapeutiche rimarranno solo tali. Inoltre, qui gli embrioni congelati non sono necessariamente destinati alla distruzione: c’è la possibilità per le coppie sterili di adottarli».
Il grande timore in questo campo è che si arrivi alla clonazione.
«Bush è contrario non solo a quella riproduttiva umana, universalmente avversata, ma anche a quella terapeutica per riprodurre le staminali. Per molti qui in America questa clonazione apre inevitabilmente la strada alla clonazione umana».
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