«È qui che si forgia il talento della parola»

Parla Antonio Scurati, ideatore del festival della creatività artistica che si terrà a Milano da domani a venerdì

Raggiungiamo Antonio Scurati al telefono, tra il va e vieni da Torino nei caldi giorni della Fiera del Libro appena conclusa. «Chi si vanta dei tanti eventi organizzati non capisce che fare ottocento incontri equivale a non farne nessuno: il rischio è che la cultura si trasformi in rumore di fondo», commenta lapidario. Guai allora a definire «Officina Italia» - la rassegna che insieme ad Alessandro Bertante, Scurati apre domani a Milano - un festival come un altro: «La sua peculiarità è l'apertura dell'officina creativa degli scrittori al pubblico, compreso quello degli scrittori stessi», spiega.
Nato a Napoli 39 anni fa, ricercatore in Cinema, Fotografia e Televisione all'Università di Bergamo, alle spalle saggi sul rapporto tra i media e la guerra, Scurati è noto al grande pubblico per due cose: si è aggiudicato (ex aequo con Pino Roveredo) il premio Campiello nel 2005 con il romanzo Il sopravvissuto (Bompiani) e in tv, davanti a Bruno Vespa, ha intrapreso una memorabile filippica contro il gran cerimoniere dei talk-show nostrani, guadagnandosi il plauso di alcuni, la riprovazione di altri e (quasi per tutti) la fama di antipatico.
Antonio Scurati, all'indomani dalle elezioni lei espresse l'intenzione di redigere un appello al nuovo governo per offrire agli intellettuali uno spazio in tv. A che punto siamo?
«Stavo per stilarlo, quel documento. Ma il modo in cui i giornali hanno interpretato la proposta mi ha dissuaso dal proseguire».
Ha proseguito invece con «Officina Italia».
«Sì, ma cambiando la formula. Rispetto allo scorso anno c'è solamente un dibattito, per valorizzare il cuore della rassegna: l'officina creativa degli autori, che presentano opere inedite cui stanno lavorando».
Protagonisti sono gli scrittori «di terza generazione».
«Sono i nati negli anni Settanta e Ottanta. Si guarda spesso al mondo giovanile come a qualcosa di sinistro e incognito: le case editrici, nello scouting e nel contatto con i giovani lettori, navigano a vista, in perenne bilico tra cecità e idolatria. Noi abbiamo deciso di arrenderci a questa generazione, e cercare un dialogo».
Noi chi?
«Noi della cosiddetta “Scuola di Milano”: autori come Giuseppe Genna, Alessandro Bertante, io».
Lei non è milanese.
«Vivo qui da quando mi sono iscritto alla facoltà di Filosofia della Statale. Non è un caso che la nostra generazione di scrittori, caratterizzata spesso da rapporti di amicizia, nasca dalla formazione filosofica laica appresa alla Statale».
Oggi, culturalmente parlando, che aria si respira a Milano?
«Il siluramento di Sgarbi mi sembra un brutto segno. Ritengo Vittorio Sgarbi un personaggio controverso, ma rispetto il suo tentativo di animare la scena culturale milanese al di fuori delle grandi istituzioni come la Scala e il Piccolo. Considerare la cultura un evento e l'esperienza culturale una dimensione da diffondere su tutto il territorio è, a differenza che in Europa, idea estranea a Milano. La città è arretrata e, a modo suo, Sgarbi le ha dato una scossa elettrica».
Chi vorrebbe come nuovo assessore?
«Una grande personalità o un grande manager della cultura: raramente le due cose vanno a braccetto».
Largo agli intellettuali anche nei progetti per l'Expo?
«Se la cultura è considerata un orpello non cambierà nulla.

Usiamo parole-feticcio come progetto e sviluppo senza capire che solo la cultura può tracciare l'arco mitico, quell'orizzonte più ampio che abbraccia tutte le attività e dà loro senso».
Impegnativo.
«No: come dimostra l'esperienza, il moltiplicarsi delle proposte non satura la domanda. In campo culturale, è l’offerta a chiamare la domanda».

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