«Qui ormai la paura è l’unica legge»

Guido Mattioni

da Milano

«È ora che qualcuno cominci a fissare delle regole e a farle rispettare. Cominciando con noi napoletani - tutti - per inquadrarci un po’. Questa città non può finire così». È un grido di rabbia, ma soprattutto d’amore, quello di Maurizio Marinella, raggiunto telefonicamente nella sua storica cravatteria bomboniera nel cuore di Napoli.
Signor Marinella, che cosa pensa di questa recrudescenza di criminalità?
«Purtroppo la mia città si trova in simili condizioni da molto, troppo tempo. Ma questo momento mi sembra particolarmente drammatico, troppo per non imporre la necessità di una svolta drastica».
Sì, ma quale?
«Qualcuno che cominciasse a fare rispettare le regole, anche le più elementari. Ormai in questa città ci si sente tutti liberi di fare tutto ciò che ci pare. E il disordine sociale inizia proprio da lì».
In che senso?
«Nel senso che chi si lamenta di questa assenza di legge è però il primo a fare ciò che è vietato. E proprio perché è vietato. Guardi le corsie preferenziali: siamo all’assurdo che sono affollate di traffico, perché ci passano tutti, mentre quelle normali adesso sono quasi libere e scorrevoli».
Ricorda giorni migliori?
«Certo, a rischio di ripetermi, voglio dire che lo svolgimento del G7, nel ’94, coincise con una stagione straordinaria. Un periodo magico in cui si usciva fino a tardi, si viveva la città...»
Mentre ora?
«Ci nascondiamo perché abbiamo paura, e se proprio dobbiamo uscire lasciamo a casa l’orologio e usiamo l’auto più vecchia e scassata».
Colpe recenti, scelte politiche sbagliate?
«Senz’altro l’indulto, che in una città a elevata malavitosità come Napoli si è trasformato in un terribile moltiplicatore della delinquenza. Ma insisto: mi sembra chiaro che il mio appello al ripristino delle regole e alla loro severa osservanza sia l’unica ricetta, possibile e praticabile, per imboccare la strada verso la normalità. Certo non penso che Napoli possa diventare da un giorno all’altro come Lugano, ma prima o poi bisognerà pur iniziare».
Lei ha detto che ci vuole qualcuno che le faccia rispettare, queste regole. Ha delle idee in proposito?
«Guardi, se si riferisce alla proposta di mandare qui l’Esercito, non sono negativo. Anche se lo vedo solo come un deterrente, non come la soluzione del problema».
Per quella cosa serve?
«Sarò banale, ma non vedo altro che una presenza più positiva e operativa di Polizia e Carabinieri. E certezza delle pene: basta delinquenti arrestati e il giorno dopo liberati. E basta veder finire sotto accusa un povero tabaccaio che difende la sua vita e il suo lavoro».
Bene, ma non mi ha ancora detto «chi» potrebbe fare qualcosa per la città...
«Se si riferisce all’amministrazione, le dirò subito che considero la signora Jervolino una persona squisita, di grande gentilezza, educazione e onestà. Ma aggiungo che a questo punto, e mi scuso con i lettori per l’espressione, è arrivato il momento che a governarci sia uno con le palle. Uno che abbia il coraggio di dire: “Mi avete votato? Bene, allora preparatevi a ingoiare scelte impopolari”. E che metta mano a situazioni ormai insostenibili».
Per esempio?
«Mettendo un freno a certa immigrazione. E dico volutamente “certa”, cioè non tutta. Come quella che deturpa la meraviglia del nostro lungomare, diventato un bazar brutto e pericoloso».
Ma lei è ottimista?
«Io sono innamorato di questa città, tanto che ho sempre risposto no alle offerte di spostarmi altrove. E mi fa rabbia a pensare che cosa trova, come servizi e sicurezza, un turista che vada a Copenhagen. E per vedere cosa? La Sirenetta.

Ma lo vuol mettere il nostro mare, la nostra arte, il nostro cibo?»
Quindi lei soffre e spera?
«Certo, soffro per questa ferita, che sanguina da troppo tempo. Ma ripeto, devo essere positivo, se non per me almeno per mio figlio. Ecco, vorrei che i suoi 10 anni non fossero diversi da quelli di un suo coetaneo che vive a Milano o a Padova».

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