«Quotarsi in Borsa? Troppi rischi»

Lamenta Lamberto Cardia nel suo addio alla Consob: la piccola e media impresa italiana è sottorappresentata alla Borsa di Milano, il divario tra i numeri dell’apparato produttivo e quelli del listino è vistoso. E offre dei dati alla riflessione: nei maggiori mercati europei le società con capitalizzazione inferiore ai 100 milioni di euro sono il 60% delle imprese quotate, da noi il 40%. Se si condidera la soglia dei 50 milioni, troviamo negli altri mercati la metà delle imprese quotate, in Italia un quarto. Lo stesso Cardia parla della necessità di un «cambiamento culturale», parla della «leva delle regole» e invoca «maggiore flessibilità degli adempimenti».
Ma che cosa ne pensano i piccoli e medi impreditori italiani? Che cosa li trattiene da fare quel «salto culturale», che poi è soprattutto patrimoniale e finanziario? Quali «opacità» caratteriali o fiscali trattengono dallo spartire con altri la propria azienda e rendere conto a terzi del proprio operato? Per cercare una risposta abbiamo individuato un gruppo industriale veneto medio piccolo, attivo nel settore del legno. Le aziende sono tre e hanno sede a Cordignano, in provincia di Treviso: Labor legno, Itlas e Italparchetti sono tre spa distinte, attive, a diversi livelli, nei pavimenti e rivestimenti in legno. Itlas è calata nella filosofia ecocompatibile e lavora legno italiano col marchio Assi del Cansiglio. «In Svezia usano solo pino svedese, in Indonesia solo tek indonesiano: io mi sono detto, perchè in Italia non utilizziamo legno italiano?» racconta Patrizio Dei Tos, 47 anni, che guida il gruppo con il padre Lino, 77 anni e tuttora attivo in azienda. Si tratta di tre società partecipate direttamente dai membri della famiglia, in un assetto finanziario molto elementare. I Dei Tos fatturano in tutto 50 milioni di euro, esportano il 10% («In Paesi produttori di legname come Canada, Stati Uniti, Russia, che ci riconoscono una qualità superiore»), chiudono il bilancio in utile «e l’utile viene sempre reinvestito».
Hai mai pensato di quotarsi in Borsa?
«Mai. Non me lo hanno nemmeno mai chiesto».
E perchè?
«Forse è un limite italiano, si fa conto sulle proprie forze. Se il comando è di una famiglia tutto è più semplice e le decisioni più rapide».
Ma aprirsi al mercato può voler dire crescere e strutturarsi.
«Ma anche spersonalizzarsi. E un’azienda spersonalizzata, che muta pelle e diventa più manageriale, rischia di chiudere».
Perchè?
«Fisco e burocrazia costano molto e i margini di guadagno di una piccola impresa, specie in periodi di crisi, non sempre sono sufficienti a sostenere una struttura che può risultare sproporzionata. Solo un adeguato sviluppo giustifica un’organizzazione suddivisa per funzioni. In realtà, con l’azienda dev’essere pronto a crescere soprattutto l’imprenditore, che deve abbandonare un atteggiamento intuitivo e sposare un modo meno artigianale di fare azienda. Questa è una condizione essenziale: far crscere gli imprenditori».
Crede che un freno alle quotazioni derivi anche da un atteggiamento individualista ed egoistico dei titolari?
«Per le più piccole sì. Ma se un imprenditore vero, che ama la propria azienda, vede nell’apertura dell’azionariato uno strumento per crescere in maniera impetuosa, lo fa. Si rende conto che una struttura a maggior respiro finanziario assicura longevità all’impresa ed è un riparo da possibili perturbazioni».
Ma l’obiettivo è solo questo?
«No, l’obiettivo dev’essere un progetto da finanziare. Un prodotto nuovo a prezzi giusti, per esempio. Se una quotazione viene fatta solo per speculazione, cioè per monetizzare delle quote di capitale, bè, questo è dannoso sia per l’impresa che per la Borsa».
Forse un freno è anche la trasparenza, non crede? Un’azienda in Borsa deve rispettare maggiori regole e dire addio a nero ed evasione.
«Questo lo escludo. Le regole sono ciò che fa stare in piedi le aziende. Oggi cercare di eluderle è un suicidio».


Cambia anche un fattore temporale: un’azienda familiare ha prospettive lunghe, generazionali, una società quotata guarda alle trimestrali.
«Pensare solo al dividendo non serve a niente. In un’azienda come la nostra c’è il compenso per gli amministratori, e tutti gli utili vengono reinvestiti. E questo fa la vera differenza».

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