Radiografia di un fallimento

Il ventisei di febbraio dell’anno duemila e dieci Urbano Roberto Cairo aveva annunciato, a Massimo Gramellini vicedirettore de La Stampa e capo tifoso dei giornalisti granata, gli intillimani del football torinese, di avere ormai preso la grande decisione: «Vendo il Toro, scelta irrevocabile, la situazione è invivibile». Un anno e fischia dopo, Gramellini e gli altri Intillimani non ce la fanno più, si erano fatti il nodo al fazzoletto e attendono il beau geste del presidente. Urbano Roberto Cairo non molla, non sembra avere l’andatura di uno che intende vendere anche perché, sia chiaro ai tifosi granata e agli osservatori neutrali, chi compra il Toro? La città di Fassino non offre alternative. Già fatica a tenere in vita la Juventus, di nome e non di fatto vista l'aria che tira in Galileo Ferraris, dunque è davvero impensabile che in questi anni così critici Torino possa concedersi il lusso di allestire due squadre competitive di football, come nei favolosi tempi di Pianelli e Boniperti, degli scudetti testa a testa, tra arbitri «cornuti e venduti» e derby caldissimi e bellissimi. Non è più storia, è soltanto cronaca, se la Juventus è su un binario morto, o dentro un labirinto come ha scritto Roberto Beccantini per Il Fatto Quotidiano, il Torino non è mai partito dalla stazione, pensa ancora alla locomotiva a vapore (il Filadelfia e tutto il resto) e perde per strada le urgenze. Urbano Roberto Cairo avrà tirato fuori quasi trenta milioni per il club a monte di entrate e dividendi sontuosi, nello stesso periodo, delle sue attività editoriali (si parla di oltre centotrenta milioni di euro), non ha debiti con le banche, non lascia o lascerebbe una società alla deriva ma quello che conta, nel football, è il campo, sono i risultati e il Toro non riesce a tornare il Torino, ha cambiato allenatori, direttori sportivi, uomini di mercato, si è illuso e ha illuso appunto Cairo con la promozione in A al primo anno, avrebbe avuto bisogno, invece, di far maturare in B alcune belle gioie che non conoscono, e si è visto in quest’ultima stagione, l’aria che circola nel campionato cadetto. Cairo ha ritagliato per il club il tempo necessario ma non ha capito che, a differenza dell'editoria, il football è una «one man company» particolare. Negli ultimi quindici anni il Torino ha usato l'ascensore passando dalla A alla B quattro volte, subendo e soffrendo l’umiliazione del fallimento dal quale proprio Urbano Cairo lo risollevò. La sconfitta di domenica contro il Padova è sembrato un risultato previsto, ai play off la squadra avrebbe forse tradito un’altra volta come era accaduto l'anno scorso con il Brescia.

Cairo sta pensando, sta leggendo, sta decidendo. Nessuno bussa alla sua porta, soltanto il frastuono degli ultras mentre la Torino bene, quella degli imprenditori granata che parlano di Superga e del Filadelfia si tiene alla larga, bôgia nen del tifo.

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