Il rebus delle regole frena l’occupazione

Da un lato una disoccupazione giovanile al galoppo, una spesa nazionale in politiche attive per il lavoro in costante calo e una diminuzione progressiva del numero di apprendisti. Sceso, secondo l’Isfol, alle 542mila unità del 2010 dalle oltre 645mila di due anni prima. Dall’altro, un’incidenza pressoché stabile degli oneri sostenuti per la sottocontribuzione di neolavoratori e imprese nonché per la formazione (circa 2,3 miliardi) sui costi complessivi legati alle politiche del lavoro, accanto a un aumento degli apprendisti trasformati in occupati a tempo indeterminato: 177mila, il 12% in più rispetto al 2009. E ancora, considerando il biennio 2009-2010, una tenuta dei rapporti di apprendistato già attivi da tempo a fronte di un calo concentrato nella fascia degli under 24. Quella che più sta pagando la crisi, così come, tra le controparti, le aziende artigiane e con esse l’insieme delle attività manifatturiere, di trasporto, commercio e costruzioni, mentre gli stessi contratti d’ingresso al lavoro mostrano di tenere nell’ambito dei servizi turistici e finanziari.
È il contesto a più facce in cui s’inquadra l’apprendistato, per il quale la normativa prevede le tipologie del contratto professionalizzante, o di mestiere, per chi ha un’età compresa tra i 18 e i 29, e al quale si ascrivono i tre quarti del totale, l’apprendistato per la qualifica e il diploma professionale rivolto a giovani dai 15 ai 25 anni, e quello cosiddetto di alta formazione e ricerca, teso a conseguire un diploma, una laurea, un dottorato o a compiere il praticantato propedeutico alla professione. In tutti i casi la norma prevede sgravi economici per le aziende, ampliati dalla legge di stabilità 2012, che alle imprese fino a 9 addetti azzera la contribuzione dei primi tre anni, mantenendo l’aliquota agevolata al 10% per i successivi. Prevedendo di destinare inoltre alle attività di formazione fino a 200 milioni di euro annui. E d’altro canto, come emerge da una recente indagine sull’apprendistato professionalizzante promossa da Gi Group tra le imprese dell’industria e dei servizi, il volano alle assunzioni poggia quasi esclusivamente sui vantaggi economici collegati, mentre solo un terzo del campione fa cenno alla possibilità di formare i lavoratori secondo le proprie esigenze. Rispetto al totale dei giovani inseriti, gli apprendisti rappresentano il 44%, con una punta del 58% nelle imprese più impegnate sul fronte dell’innovazione. Quanto all’assunzione ad apprendistato concluso, tre quarti delle aziende dichiarano di procedervi in nove casi su dieci. Le modifiche del ddl Fornero, all’esame della Commissione lavoro del Senato, intervengono sia condizionando l’assunzione di nuovi apprendisti alle stabilizzazioni effettuate nell’ultimo triennio (almeno il 30% di quelli già impiegati e poi, trascorsi tre anni dall’approvazione della riforma, la quota sale al 50%), sia sul rapporto tra apprendisti e lavoratori qualificati in organico, che da paritetico passa a 3 contro 2. Oltre che sulla durata minima del contratto, fissata in 6 mesi, fatte salve le attività stagionali. Il testo prevede anche la costituzione di un sistema per l’apprendimento permanente che fissa gli standard per i percorsi di istruzione, da rendere spendibili nell’intera Ue. La scommessa del governo sull’apprendistato come argine all’emorragia occupazionale trova sponda nei dati che mostrano come la quota di apprendisti sugli impiegati tra i 15 e i 29 anni sia passata dal 16% al 15% tra 2009 e 2010, contro un calo generale del tasso di occupazione cinque volte superiore nella medesima fascia di età. Un calo ancora più cospicuo se si considerano solo gli under 24, ben il 35,9% dei quali risulta, a marzo, senza lavoro.

Contro una media europea del 22,6%, e sempre secondo le stime dell’Ocse, del 22,1% dell’Eurozona. Significativo, al riguardo, il confronto con il 7,9% della Germania, dove le aziende impiegano circa 1,6 milioni di apprendisti, e con il 21,8% della Francia, dove invece il loro numero si aggira sulle 420mila unità.

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