Il regime di Ortega soffoca nel sangue la rivolta popolare. Ma non la ferma

Omicidi, desaparecidos, torture. Dal 19 aprile il Paese è sotto assedio per le proteste Il presidente sandinista usa il pugno di ferro e rischia di finire incriminato dal Tpi

Il regime di Ortega soffoca nel sangue la rivolta popolare. Ma non la ferma

Lacrime, sangue e morte, seguendo alla lettera il «manuale venezuelano» del suo compare di crimini contro l'umanità, quel Nicolás Maduro che la scorsa primavera a Caracas di studenti ne aveva fatti ammazzare oltre cento. «Lacrime, sangue e morte» è quanto lo scorso 19 aprile, il presidente dittatore del Nicaragua, il sandinista Daniel Ortega, ha ordinato alla sua polizia ma, anche, ai suoi sgherri in motocicletta, delinquenti al soldo dell'ideale totalitario di quel bolivarismo del XXI secolo che, incredibilmente, affascina ancora un nugolo di intellettualoidi di sinistra nostrani, al pari di chi detta le linee guida in politica estera del M5S.

Sessantatré i morti, 15 i desaparecidos, quasi tutti studenti, molti dell'Unipol, il Politecnico di Managua diventato centro delle proteste in quel 19 di aprile destinato a entrare nella storia futura di questo piccolo paese centroamericano perché, dicono tutti gli intervistati da Il Giornale, a cominciare da illustri dissidenti dell'orteguismo come Edmundo Jarquín (vedi intervista a lato) che fece parte del primo governo sandinistra tra 1979 e 1990, «l'unica certezza è che ci sarà un Nicaragua prima e uno dopo quella data».

La conta dei morti è stata verificata con minuzia certosina dalla CPDH, la locale Commissione permanente per i Diritti Umani, l'unica entità affidabile e che continua a ricevere denunce da parte dei sopravvissuti alla violenza di Stato, mentre il regime di Ortega - dopo aver dato una prima cifra ufficiale di dieci morti definendo gli studenti «delinquenti, vandali e asociali» - ha smesso di contare o, meglio, ha iniziato a nascondere i suoi crimini.

«Li hanno colpiti tutti in testa o al petto, vicino al cuore, con il chiaro intento di uccidere il maggior numero di persone», spiega l'attivista Tamara Suju del Casla Institute di Praga, che sta raccogliendo le testimonianze degli studenti per portare - dopo avere fatto lo stesso con il suo «compagno di eccidi» Maduro - anche Ortega di fronte alla Corte Penale Internazionale. «Lo faremo nei prossimi giorni perché quello dello scorso 19 aprile è stato vero e proprio un massacro che non può passare impunito».

Del resto, le testimonianze oramai sono centinaia, quasi tutte di studenti dati in un primo momento come scomparsi, desaparecidos, ma che, dopo giorni di torture inenarrabili con tanto di scariche elettriche ai genitali, sono stati rilasciati anche grazie alle pressioni internazionali, a cominciare da quella fatta da Papa Francesco che, domenica 20 aprile al Regina Coeli, ha lanciato un appello al dialogo affinché cessassero da subito le violenze in Nicaragua. Una velocità impressionante segno di un notevole cambiamento di rotta in Vaticano, dopo la lentezza con cui, invece, la Santa Sede ha affrontato il caso assai simile per «modus operandi» della dittatura venezuelana.

«Stavo camminando con in mano una bottiglietta d'acqua racconta Manuel, uno dei tanti studenti intervistato nella sede del CPDH da 100% Noticias, l'unico canale che tramite la diretta streaming su Youtube è sfuggito alla censura di Ortega quando all'improvviso due auto della polizia mi hanno fermato, accusato di portare da bere ai manifestanti e cominciato a picchiare, scalciandomi anche da terra. Erano in sette». A quel punto lui, come centinaia di altri ragazzi di età compresa tra i 18 ed i 23 anni, è stato portato prima in commissariato e poi a El Chipote di Managua, l'equivalente de La Tumba e dell'Elicoide di Maduro, ovvero carceri trasformatesi negli ultimi anni in veri e propri centri di tortura di Stato, lager dove rieducare i dissidenti che sono poi chiunque s'opponga ai metodi feroci di queste due dittature socialiste latinoamericane. Qui vessazioni, umiliazioni come l'obbligo di mangiare i propri escrementi, la picaña elettrica applicata ai genitali e, infine, affinché fossero riconoscibili da tutti a mo' di lezione, la «tosatura», ovvero il taglio a zero dei capelli prima di essere rimessi in libertà. Senza scarpe però, per rendere più umiliante il ritorno a casa.

Ecco cos'è stato il 19 aprile scorso per la gioventù di Managua, un massacro fisico ma anche morale passato quasi sotto silenzio sui media liberal, oggi più che mai in difficoltà a narrare le violenze e i soprusi da parte di alcuni governi latinoamericani di sinistra dichiaratamente socialisti come, appunto, il Nicaragua.

Nello specifico, la goccia che ha fatto traboccare il vaso del malcontento popolare è stata la decisione di Ortega di ridurre le già misere pensioni del 5% e di aumentare invece i contributi a carico dei lavoratori. Ben presto, alle rivendicazioni studentesche si sono uniti prima gli abitanti della capitale, scesi in massa nelle strade a difendere i supermercati presi d'assalto dai delinquenti al soldo del regime. Poi i contadini, arrivati nella capitale a decine di migliaia dalle campagne per partecipare a una messa che, domenica scorsa, ha chiesto «pace» ma anche «giustizia per gli studenti». Difficile dimenticare la marea di campesinos trasportati da enormi camion ricoperti dalle bandiere nicaraguensi al suono di canzoni storicamente «sandiniste», come la famosa Que viva los estudiantes di Mercedes Sosa e dall'ancora più celebre El pueblo unido jamás será vencido.

Ortega, dopo le parole di Papa Francesco e le prime immagini sui circuiti internazionali dei morti (compreso un reporter ammazzato in diretta) ha ritirato la sua riforma pensionistica e ha invitato tutti al dialogo, con voce melliflua e tono grave, proprio come fece il generale Somoza pochi giorni prima della sua caduta. Già perché, oramai la dittatura familistica di Ortega con tutti i suoi figli riconosciuti inseriti nei gangli del potere e la moglie Rosario Murillo come vice - assomiglia sempre più a quella di Somoza che lo stesso sandinismo rovesciò.

Per sedersi a dialogare, tuttavia, il neonato Movimento Universitario 19 aprile ha chiesto che entro il 9 maggio Ortega faccia entrare in Nicaragua la Commissione Interamericana per i Diritti Umani e, come osservatori, alcuni funzionari dell'Onu affinché indaghino sugli omicidi degli studenti. Ma anche sul perché sia stato imposto agli ospedali di rifiutare le cure agli oltre 250 feriti, sulle torture sistematiche, le aggressioni ai giornalisti, la censura alle 4 principali tv private, la sorte dei desaparecidos, le manomissioni dei certificati di morte, la mancata consegna dei cadaveri alle famiglie senza firma di liberatorie attestanti che i loro cari erano «morti in scontri a fuoco casuali», il divieto di accesso agli obitori per il riconoscimento delle vittime e, dulcis in fundo, la repressione contro contadini e indios. Se Ortega «non accetterà le nostre condizioni aumenteremo la lotta di resistenza», assicurano gli studenti poco disposti a dialogare con il loro carnefice.

«Per la prima volta dal trionfo della rivoluzione sandinista scrive il quotidiano La Prensa - Ortega ha dunque perso il controllo delle strade e, ora, deve lasciare pacificamente il potere o farà la fine di Somoza, costretto all'esilio in Paraguay dove fu ucciso neanche un anno dopo, nel 1980.

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