RENSI Essere giusti è una follia

«L’istinto, l’impulso sociale, è più forte di quel che sarebbe la voce della ragione»

RENSI Essere giusti è una follia

Quando, per essere morali, si perde la libertà o la vita, quando per tenere fede alla propria religione o alla propria idea si affronta la tortura e la condanna, quando si vuol salvare la propria dignità umana a tutti i costi, e sono questi i casi della vera morale, della morale superiore, come si fa ad operare un combaciamento fra moralità e utilità, fra moralità e ragionevolezza? Per quale ragione si compie allora l’azione morale?
Perché Giordano Bruno ha salito il rogo? Forse per la semplice pazzia di non voler ritrattare la propria fede? Per quale altra pazzia Socrate a Critone che gli offre la possibilità di una facile fuga risponde negativamente? Questa parola «pazzia», che è l’unica spiegazione che possiamo addurre a quell’agire incomprensibile, mostra il vero indiscutibile fondamento della morale nella sua specie più elevata. E come potrebbe l’uomo che così, come un allucinato, s’immola, rispondere ad alcuno che lo interpelli se non in questo modo: non so perché lo faccio, capisco che è un’assurdità, una pazzia, eppure non ne posso fare a meno, devo fare così, c’è qualche cosa d’inesplicabile che me lo comanda e mi sospinge?
C’è insomma qualche cosa che è più forte di me, che è contro alla mia ragione prudenziale e la soverchia, che mi costringe a questa azione? In questi casi appare chiaro come l’azione scaturisca dalla presenza di un principio misterioso, del daimon socratico, cioè di una demoniaca forza interiore, di cui bisogna postulare l’esistenza, se si vuole spiegare perché certi individui in determinate circostanze agiscano da pazzi. \
Anche per Platone la virtù è \ pazzia, la morale è pazzia, non scaturisce dal calcolo ragionativo, ma da questo impeto interiore, che sospinge ineluttabilmente l’uomo virtuoso ad agire in modo affatto assurdo. Quella pazzia, che per il Vangelo consiste nell’abbandonare tutto, famiglia, beni, comodità, per seguire la via del martirio, e che S. Paolo chiama «la pazzia della Croce». Quella pazzia che costituisce la profonda eterna verità morale adombrata in tutte le religioni, quando ancora esse non sono decadute allo stadio di religioni statiche, non hanno cioè perduto il senso del mistero universale e non danno, di conseguenza, il loro beneplacito morale alle virtù borghesi e utilitarie - e che simbolicamente è espressa dalle parole di S. Paolo: «Sapienza agli occhi del mondo, follia agli occhi di Dio, sapienza agli occhi di Dio, follia agli occhi del mondo».
Noi concludiamo con l'augurio che di tali folli l'umanità non venga mai a mancare. \
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FRAMMENTO VII. Esistono due specie di morale ugualmente giuste secondo il punto di vista, in cui l’uno o l’altro uomo o lo stesso a distanza di anni, settimane o minuti si mette: la morale dei piccoli piaceri e del «carpe diem», poiché la nostra vita ha la durata di un lampo e dopo si va sotterra; e la morale della pazzia che consiste nello scegliere gl’impulsi generosi e nobili a costo di ogni patimento e sacrificio. E perché l’uomo deve a costo di sacrifici seguire questi impulsi? Perché è spesso sospinto irresistibilmente a seguirli? Ciò è irrazionale; razionale è la prima condotta. È istinto, come per le api sacrificarsi e morire: razionale sarebbe per esse vivere in modo soddisfacente la loro vita individuale, ma non lo possono. L’istinto, l’impulso sociale, è più forte di quel che sarebbe la voce della ragione. \
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FRAMMENTO IX. Sciocchezza insigne di credere che l’etica possa dare dei precetti, su cui gli uomini si conducano, che essi vengano cioè determinati nelle loro azioni da tali precetti sapientemente dimostrati. Sciocchezza di credere che, dopo aver dedotto a fil di logica «opera in modo ecc.», gli uomini se lo proporranno nelle loro azioni (solo un milionesimo lo sa e lo capisce!). Gli uomini agiscono secondo il loro impulso fondamentale. Il generoso è generoso e trova soddisfazione in questo suo modo di essere a cui non potrebbe sottrarsi; chi è leale e veritiero sente ripugnanza invincibile a non esserlo e così via. E queste qualità si formano a poco a poco, per formazione naturale veramente darwinistica, per selezione. Chi è sleale o vile agisce in modo corrispondente e nessuno può dimostrargli che bisogna agire in modo contrario. Si formano i bennati; non s’insegna con precetti la virtù. Solo si può descrivere quale è e come si comporta l’uomo bennato - dare dei modelli, non dei precetti - come facevano i greci (che dicevano appunto «bennato»): ciò può servire da stimolante a chi è già fondamentalmente buono. Così si può dire: per avere la felicità la via più probabile è questa; ma se si ha già una certa natura.
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FRAMMENTO X. Quindi solo «sii ciò che sei» (perché non si agisce se non in conformità alla propria costituzione). Si dirà: in questo modo il brigante avrà un incentivo per diventare sempre più brigante. In verità qualunque dottrina lo lascia tale quale è. Si pensa forse che la dottrina possa mutare? Come ogni precetto anche questo si dirige solo ai «bennati», ai fondamentalmente buoni, di cui esso mette in opera tutte le profonde tendenze. Vedi Simmel, Schopenhauer.
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FRAMMENTO XI.

Ricordare che la morale di Platone (ridotta all’idea del bene e alla possibilità di vedere quest’idea, ossia d’incorporarsela = buona volontà) è formale come quella di Kant ed ha perciò gli stessi vantaggi. Non una formula fissa, ma flessibilità, specialità, individualismo.

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