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«Riapriamo una chiesa in un Paese islamico»

A Gerba, dopo decenni, torna al culto il tempio cattolico di San Giuseppe

Stefano Zurlo

nostro inviato a Tunisi

Fu immortalato dalle telecamere delle tv italiane quando celebrò i funerali di Bettino Craxi. Era il 21 gennaio di cinque anni fa e monsignor Fouad Twal si districò fra tre lingue, italiano, francese e arabo, per dare l’addio al leader socialista nell’affollata cattedrale di Tunisi. Ora questo cristiano di frontiera, abituato a vivere sulla faglia che corre fra Occidente e Oriente, lascia dopo 13 anni il Nord Africa e vola in Palestina: da arcivescovo di Tunisi a vescovo coadiutore di Gerusalemme, da oggi 19 novembre al fianco del patriarca Michel Sabbah e con la garanzia di prendere di qui a qualche anno il suo posto. Twal è un arabo dal fisico massiccio, nato 65 anni fa a Madaba, in Giordania: appartiene alla tribù di Al Ozeisat che si convertì nel I secolo.
Monsignor Twal, le è toccata una stagione difficilissima: l’11 settembre, il terrorismo, la guerra in Irak. Il Mar Mediterraneo sta tornando a dividere i popoli?
«Lei sbaglia, come tanti in Occidente che tracciano una linea netta e tagliano in due: di qua l’Occidente, di là l’Islam».
E perché sbagliano?
«Perché non esiste l’Islam in astratto, ci sono tante realtà concrete. Io ho incontrato l’Islam tunisino».
Sì, ma il clima è cambiato ovunque.
«I miei rapporti col governo e i leader islamici sono stati ottimi e con la conoscenza reciproca sono addirittura migliorati. Anzi le do una notizia piccola ma clamorosa: dopo lunghe e complesse trattative con le autorità abbiamo ottenuto la restituzione della chiesa di san Giuseppe a Gerba. È in restauro, per l’estate sarà pronta. Da decenni in tutta l’Africa del Nord non si apriva una chiesa».
Dunque, la comunità cristiana, per quanto minuscola, ha un suo spazio in Tunisia?
«Io spero che quel che ho visto qui a Tunisi serva di esempio per altre realtà, più difficili. Quando arrivai qua, la richiesta di Roma era: “Salva il salvabile”. Oggi la Chiesa ha buone relazioni con il governo e le sue opere, pur entro limiti ben precisi, vivono una nuova fioritura».
A cosa si riferisce?
«La Chiesa qui gestisce 10 scuole, frequentate da circa 6mila allievi, tutti tunisini: 2 materne, 7 elementari, una professionale. La nostra presenza è stimata. E poi di noi hanno bisogno gli europei, in particolare i francesi e gli italiani. Alcuni italiani, in maggioranza vecchi artigiani senza alcun paracadute previdenziale, vivono in condizioni pietose. Per loro lancio un appello: chi può dall’Italia li aiuti».
Speriamo di sì e torniamo fra i banchi: nei vostri istituti non s’insegna la religione cattolica. E allora?
«È vero, noi non possiamo predicare fuori dalla chiese ma questo non ci spaventa: noi testimoniamo Cristo. Noi ci presentiamo per quel che siamo. Persone che hanno incontrato Cristo e nell’azione quotidiana lo comunicano al mondo. Questo è l’essenziale, questo ci basta, anche se ogni giorno vorrei far saltare quei limiti, questo ci fa sperare».
Una goccia nel mare dell’Islam. E i rapporti fra i due mondi si rannuvolano sempre più. Non si sente scoraggiato?
«Perché? La storia è fatta di momenti di incontro e di momenti di scontro. Io tredici anni fa non avrei mai pensato di poter riaprire un giorno la chiesa di Djerba. Le suore di Madre Teresa mandano avanti una piccola casa di riposo a La Goulette, dove un tempo abitava la comunità italiana. E poi abbiamo la clinica Sant’Agostino, l’unica casa di cura cattolica del Nord Africa. In questi anni abbiamo fatto tante cose, abbiamo riordinato la nostra biblioteca e, soprattutto, abbiamo incontrato tante persone. I miei collaboratori vengono invitati nelle case e sono abbracciati come fratelli.

È con questo spirito che vado a Gerusalemme».

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