Per capire cosa riservi il vertice di stamane basta ascoltare Condoleezza Rice. «Non ho segnali che il governo di unità nazionale palestinese possa rispettare le condizioni del Quartetto, ma spero – si augurava ieri il segretario di Stato Usa - che l’incontro a tre sia un’opportunità per attuare gli accordi di pace esistenti». Se andrà bene, insomma, la montagna partorirà un topolino. Se andrà peggio si chiuderà a male parole. Quando, a gennaio, riprese a far la spola tra Gerusalemme e Ramallah, le aspirazioni di Condoleezza spaziavano ben al di là del semplice rilancio degli accordi di pace esistenti.
Il segretario di Stato non s’accontentava certo di rivitalizzare l’incartapecorita road map, sognava piuttosto di diventare il perno e la prima donna di nuove e fresche intese capaci di rilanciare i negoziati. Puntava a ridare statura e peso alla flebile immagine del presidente palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) considerato l’unica alternativa all’intransigenza di Hamas. Non a caso era stata lei a ideare l’inedito summit a tre, con il leader palestinese e con il premier israeliano Ehud Olmert, fissato questa mattina a Gerusalemme. Ma da gennaio a oggi nulla è andato come lei sperava. Abbas anziché fronteggiare Hamas, destituirne il governo e marciare verso nuove elezioni ha preferito dar retta al sovrano saudita Abdullah e firmare con Hamas un’intesa sul governo d’unità nazionale. Quell’intesa non prevede né la rinuncia alla violenza di Hamas, né il riconoscimento di Israele, né la totale accettazione degli accordi di pace pregressi, ma resta – a dar retta al presidente palestinese - il miglior antidoto alla guerra civile e l’unico accordo possibile. Abbas, dopo averlo urlato sabato al sottosegretario statunitense David Welch, l’ha ripetuto ieri al capo della diplomazia Usa. La Rice del resto non ha offerto ad Abbas molte vie d’uscita. Né poteva farlo. Il suo arrivo a Ramallah era stato preceduto dal resoconto della telefonata tra George W. Bush e Olmert, in cui il presidente americano avrebbe garantito al premier israeliano il boicottaggio del nuovo governo palestinese. Quel resoconto spiattellato durante la riunione del governo israeliano aveva fatto infuriare i palestinesi e fatto terra bruciata intorno a Condoleezza. In tutto questo l’unica concessione ad Abbas è stata la garanzia di non annunciare pubblicamente la posizione americana fino alla presentazione del programma del nuovo governo di Fatah e Hamas. Si tratta, è chiaro, di un’attesa puramente formale. Da qui alla formazione del governo, Hamas si guarderà bene dal fare concessioni. Farà invece muro intorno al presidente e, messa da parte l’antica ruggine, ne elogerà la capacità di contrapporsi ad americani e israeliani. Il primo a dar fiato alle trombe della nuova strategia è il premier uscente e designato Ismail Haniyeh: «Le interferenze americane e israeliane puntano a far piazza pulita dei principi di fondo della causa palestinese e a farci deviare dai nostri obbiettivi».
Con queste premesse l’unico obbiettivo possibile per la Rice è evitare che il summit si trasformi in un’accesa contrapposizione tra Olmert e Abbas incentrata sull’accordo alla Mecca. Olmert, già contrario ad affrontare qualsiasi intesa sostanziale, ha fatto capire ieri sera alla Rice di voler far scivolare la discussione proprio su quello scottante argomento. Per il premier israeliano la condizione indispensabile per ogni progresso diplomatico resta l’accettazione delle tre condizioni poste a suo tempo dal Quartetto diplomatico.
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