Alla ricerca delle origini nel bioparco veltroniano

Caccia a Darwin a Rom, tra scimmie e tigri prima che il pubblico entri. Viaggio a ritroso di cinque milioni di anni. In un mattino

Alla ricerca delle origini 
nel bioparco veltroniano

Io e lei ci vediamo una volta alla settimana da ormai cinque anni, un amore tormentato e senza fine. Smorfiosa, civetta, anche un tantino puttana sebbene non la dia mai a nessuno, Edy a volte mi concede un solo bacio senza scendere dall’albero, mentre nei giorni buoni si avvicina per salutarmi e possiamo baciarci incollando le nostre labbra separate da un vetro e da cinque milioni e mezzo di anni, da quando i nostri dna si sono divisi.
Qui vengo sempre presto, una o due volte a settimana, appena aprono i cancelli io entro e vado da loro, dagli scimpanzé, corro lì da Edy, la mia amata. Prima che arrivino le orde di turisti e genitori con bambini ho un paio d’ore di pace. È durante queste visite settimanali al Bioparco di Roma che mi riposo dai miei romanzi terminali, e, soprattutto, trovo l’ispirazione più tragica e biologica per scrivere le mie ultime opere. Di certo meno tragica del non essere riuscito, in cinque anni, a farmi dare un permesso d’ingresso honoris causa: per Veltroni sarei stato troppo di destra, per Alemanno troppo di sinistra, quindi, per la verità, non ci ho neppure provato. D’altra parte avrebbero avuto ragione, meglio tenermi lontano.
Veltroni è stato un grande taglianastri, mi spiegano. «Si mette in mostra come un pavone a ogni inaugurazione, taglia i nastri, si fa bello, e poi sparisce». Walter aveva promesso un nuovo alloggio per Petronilla, Martina e Zoe, i tre oranghi vicini dei miei amati scimpanzé, chiusi da anni in un bunker di cemento in condizioni penose. «Mai fatto, mi pare». «Macché, Parente, si figuri. Però venga a vedere qui cosa invece è stato fatto». Walter, togliendo altro spazio agli animali, ha impiantato nel Bioparco una Casa di Riposo per Disabili, che si chiama veltronescamente «Durante Noi», e un’altra, concomitante, per anziani ricchi, «quelli che abitano nei condomini qui di fronte». Giustamente gli orango non votano, quindi cosa gliene fregava a www.walterveltroninoi.it. E però gliene frega poco anche agli anziani e ai disabili, visto che nelle strutture ancora nuovissime non c’è mai nessuno. «Ma almeno Walter faceva finta, tagliava i nastri, Alemanno boh, s’è visto solo una volta, all'inizio, per farsi una passeggiata».
Sembra che l’unica occupazione di Alemanno sia stata quella di piazzare qualche carica di rappresentanza qua e là, tra presidenza e direzione, dove invece coloro che si occupano degli animali sono tutti laureati ma trattati come camerieri e senza carriere certe, perfino chi lavora lì da dieci anni continua a prendere 1000 euro al mese, e senza adeguate coperture assicurative oltre all’Inps. Passare in mezzo alle tigri, in strutture fatiscenti del 1936, non è considerato un lavoro a rischio. E tuttavia sono proprio loro a lamentarsi non per se stessi ma per gli animali. Mentre gli orango sono cementati vivi e non vedono mai il sole, e gli orsi d’inverno patiscono il freddo («l’impianto di riscaldamento si è rotto da anni e nessuno lo ha mai riparato»), negli uffici amministrativi si sono appena installati costosi impianti d’aria condizionata e sembrano gli uffici di Bartleby o Kafka, «c’è pure chi è addetto a spostare i fogli da una scrivania all’altra».
Non va meglio per gli uccelli, sempre meno specie, sempre più spennati. Il bucorvo abissino, un bestione di un metro con gli occhi di Elizabeth Taylor, per esempio, mi era parso incazzato e non mi sbagliavo, mi spiegano che è finito in una gabbia per pappagalli, e lì è rimasto. I lupi sembrano ormai cani di campagna, per fare habitat gli hanno messo le palmette («come se i lupi, normalmente, stessero alle Maldive»). Tante moine disneyane alla giraffina nata l’anno scorso, e tuttavia l’altra, nata tre anni fa, ha le gambe storte, andrebbe accudita, e nessuno la cura, anzi. «Costa troppo», dicono. Inoltre, che ci sia Veltroni o Alemanno, gli addetti ai lavori, ossia gli «operatori zoologici», ossia i laureati trattati come spazzini, ai quali non viene neppure mostrato il bilancio della società, vengono spostati con criteri arbitrari e politici: la ragazza che sta alle giraffe da anni ora sta con gli ippopotami e non è il film con Bud Spencer, chi si occupa dei felini ai volatili, chi era il guardiano degli elefanti è andato agli struzzi, causando traumi psicologici agli animali, come cambiare genitori a bambini ogni tre mesi.
Per chi lavora al Bioparco vale un principio darwiniano inverso, non la sopravvivenza del più adatto e del più bravo ma quella del più raccomandato. «Noi keeper zoologici da quaranta ore settimanali e mille euro al mese siamo quasi tutti laureati, vada a farsi un giro negli uffici dell’amministrazione e in direzione, quasi nessuno è laureato e pullula di posti inutili. Non esiste meritocrazia». Certo, i disastri del Bioparco si travasano da un’amministrazione all’altra, l’anima bella di Francesco Rutelli voleva perfino smantellarlo per renderlo un «centro polifunzionale» per famiglie, più utile a attirare voti, con l’alibi di un’idea palombelliana, disneyana e celentanesca degli animali da liberare (liberarli, dove?), come andare in un orfanotrofio e rimettere i bambini per strada. Quanto a filantropia ruffiana e cazzona non si finirebbe più: è stata perfino tolta l’area degli orsi polari per farci una piscina per ipotetici bambini senza famiglia, mai utilizzata e sempre lì, non si può toccare. «Ma a che serve?» chiedo. «A niente. Serviva a sensibilizzare l’opinione pubblica per lo spreco dell’acqua in Africa». «Per non sprecare l’acqua in Africa si fa una piscina a Roma, che non usa nessuno? Geniale».
Insomma, che fare? Forse bisognerebbe spiegare a Alemanno quanto fece Benito per questo posto così incantevole e pieno di architetture affascinanti, fintoegizie, neoliberty, postbarocche, e soprattutto pieno di animali bellissimi e molto più intelligenti dei genitori dei primati umani che dicono alla prole «Guarda, i gorilla», e non di rado sono i figli a correggerli «Papà, non dire cazzate, quelli sono scimpanzé». Magari, con la scusa della buon’anima, Alemanno si dà una mossa.
Quanto a me, lo so, scrivendo questo piccolo reportage d’amore e di burocrazia, mi sono giocato il mio pass, tanto non me lo davano lo stesso, ma chissà, forse Gianni, per dispetto, mi farà ingabbiare insieme a Edy, Pippo, Bingo, Susy e Pippi, magari. La gente pensa a farli uscire, io vorrei entrare lì e non uscire più. Lì mi sentirei libero, prigioniero con la mia Edy di una libertà comune, primate tra i primati, tanto i miei romanzi li scriverei lo stesso, e lei mi insegnerebbe a arrampicarmi sugli alberi e a farle il grooming e molte altre cose dimenticate dalla preistoria, e finalmente sarebbe amore vero, non più platonico, non più separato da un vetro, dopo cinque milioni e mezzo di anni sarei felice di non essere più me né uno di voi.

Certo, i turisti si affollerebbero dall’altra parte e qualche signora mi additerebbe, strano scimpanzé senza peli, dicendo «Oh, gli manca la parola» e io, sovvertitore della scala evolutiva, dalla mia parte del vetro potrei risponderle: «È a voi, signora mia, che manca il silenzio».

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