Cultura e Spettacoli

Riecco il re Stevie Wonder: dà lezioni di soul universale

Cesare G. Romana

Ha una sua personale ricetta, Stevie Wonder, per i mali di un’America sempre più atterrita da catastrofi naturali e venti di guerra, con la popolarità del suo presidente in caduta libera e tanti interrogativi irrisolti. La ricetta è così ingenua da rasentare il sublime, e Wonder la enuncia parafrasando l’Ecclesiaste: «C’è un tempo per la guerra - ammonisce -, uno per il carcere, uno per la disperazione. Ora è il tempo dell’amore».
L’amore, dunque, come universale panacea: ecco in sintesi il nuovo album, il primo dopo dieci anni, del cantore di Innervision e di Ebony and ivory. Inequivocabile il titolo, A time to love, quindici le canzoni, nutrito il cast con Paul McCartney, Bonnie Raitt, Narada Michael Walden, Greg Phillinganes, musicisti indiani, chicani, uzbechi, nigeriani e lo stesso Wonder impegnato con i più disparati strumenti. L’uscita è prevista per il 14 ottobre ma l’album, atteso da anni e da anni rinviato, è disponibile su web fin da oggi.
Val la pena di approfittarne, ché A time to love non smentisce di certo la fama del suo autore: casomai confermandone gli archetipi e ribadendo gli stereotipi d’una vicenda musicale unica al mondo per rigore e passione, finezza e genialità. Si parla d’amore ma senza nulla concedere alla melassa, fin dall’iniziale If your love cannot be moved col suo ritmo tribale, l’ondoso controcanto degli archi, il disegno mosso dei cori e la voce di Kim Burrell a duettare, linda e sensuale, con quella di Stevie. Che mantiene negli anni - e sono, all’anagrafe, cinquantacinque - la giovanile freschezza e l’agile duttilità di sempre: come nelle volute aeree di Sweetest somebody I know o nel ricamo sognante di Moon blue, quasi una rilettura di Blue moon reinventata con inchiostro soul, la voce che s’impenna in svisate temerarie sul respiro franto del pianoforte e sull’alito lungo delle tastiere.
Voce che canta, poi, come un violoncello in From the bottom of my heart, evoca atmosfere à la Prince in Please don’t hurt my baby, duetta con Aisha Morris nella soave How will I know. E inventa con India. Arie il caleidoscopio multietnico di A time to love, inno implicito alla fratellanza tra popoli e tra culture, bel tributo alla vocazione sociale e civile di Wonder.
Il metodo compositivo è quello che ha reso inimitabile, nei decenni, il genio di Stevie Wonder: le radici «nere» della sua musica rivissute in termini d’assoluta universalità, l’istinto sublimato dall’eleganza, l’emozionalità mediata dallo stile. E da una poliedricità di spunti e citazioni, quasi un viaggio negli ultimi cinquant’anni di musica, che non sempre appartiene ai moderni, monocordi campioncini del soul: ecco il brulicare ciarliero di My love is on fire - col flauto sbarazzino di Hubert Laws - e l’ariosa cantabilità di Passionate raindrops. Il savor tropical di Tell yourt heart I love you e il sax milesdavisiano di Mike Phillips in True love. Il piglio marziale di Shelter in the rain e il funk scalpitante di So what the fuss.

Tutto ciò dispiegato sul pentagramma con una sapienza di scrittura, un dialogo continuo e imprevedibile tra strumenti, una tavolozza sonora così varia e preziosa che, già dal momento in cui A time to love entra di prepotenza nella cronaca, lo trasferisce d’acchito, e di diritto, nella storia.

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