Gianni Baget Bozzo
La Lega ha perso la devoluzione, ma la questione settentrionale esiste. Lo prova il voto delle due regioni del nord, che sono la coppia trainante dell'economia nazionale. Il voto è stato inteso nel mezzogiorno e nel centro come la rivolta contro Roma ladrona e l'impiego pubblico che parla meridionale. Una certa rozzezza della propaganda leghista ha contribuito a questo malinteso, perché la riforma non toccava né l'unità del servizio sanitario nazionale, né la struttura della pubblica istruzione, né l'ordinamento della polizia in forma unitaria. Voleva semplicemente adeguare il Paese alle sue differenze e dare alle regioni più creative uno spazio che nulla toglieva alle altre regioni. In queste condizioni il centrodestra doveva spiegare agli elettori il carattere complesso di una riforma che era veramente la grande riforma invocata dai socialisti sin dall'86, il superamento del parlamentarismo e della partitocrazia che erano caratteristici della prima Repubblica.
La riforma costituzionale ci dava un sistema semipresidenziale del primo ministro, eletto dal popolo, rendeva meno invadente il ruolo del presidente della Repubblica, toglieva il bicameralismo perfetto dando diversi poteri alle due Camere. Era in breve lo stesso mutamento di una Costituzione assemblearista fatto dai francesi nel '59 con la V Repubblica. Ma per riformare una Repubblica e una Costituzione ci vuole un dramma nazionale: e i francesi avevano la ribellione dei generali in Algeria e la minaccia di un colpo di Stato militare, noi non avevamo tanto. Eppure se la Francia è diventata un grande paese, nonostante la diminuita forza economica e militare, lo deve al cambio costituzionale. Anche per noi era una occasione simile. Che il testo avesse imperfezioni si può concedere, ma anche la V Repubblica francese fu corretta durante il suo esercizio. L'aver presentato la riforma come erede della devoluzione di Bossi, e non della grande riforma lanciata dai socialisti sin dall'inizio degli anni '80 e accolta da tutti i partiti con tre bicamerali successive, significa non aver compreso che era in gioco qualcosa di ben più grande che l'aumentare i poteri alle regioni in limitate materie, dando loro potere inferiore a quello dei land tedeschi o delle regioni spagnole. Il centrodestra stesso ha vissuto la grande riforma più come vincolo di coalizione che come grande riforma. È sembrato vergognarsi talvolta di ciò che sosteneva, come è accaduto nel caso del leader dell'Udc che è rimasto silenzioso negli ultimi giorni della campagna elettorale. Il vincolo con Follini è ancora tenace. L'Udc di fatto ha scelto la libertà di voto nel referendum.
Il voto del centrodestra è andato dunque al centrodestra in quanto tale, indipendentemente dalla riforma costituzionale. Ed è stato ancora una volta un voto attribuibile a Silvio Berlusconi, che non a caso, ha impostato la campagna elettorale come un no a Prodi. E non era una forzatura, perché Prodi è la vecchia Repubblica e la vecchia Dc, la partitocrazia, il morto che afferra il vivo.
La stampa italiana esulta alla sconfitta di Berlusconi e alla fine della grande riforma. Non si farà alcuna riforma perché non la vogliono né Prodi né Bertinotti: uno perché è il vecchio del vecchio e l'altro perché rappresenta l'antistato, la forma attuale della rivoluzione permanente. Non ci saranno bicamerali perché né Prodi né Bertinotti le vogliono e i dalemiani fanno soltanto un gioco di parole per manifestare il loro buonismo e nascondere la loro capacità di regime.
Se Casini e Follini pensano di aderire a un tavolo costituzionale non lo troveranno: al massimo ne dibatteranno nella Commissione Affari Costituzionali. Non ci sarà più riforma perché è tornata la partitocrazia. Contro di essa sta metà del paese nel voto politico, quello che conta, e una minoranza del 40% del voto costituzionale; con lo spaccato regionale del nord che indica la divisione nazionale.
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