Una riforma da migliorare

La modifica dell’articolo 18 ha sollevato un’ampia battaglia ideologica, ha scosso una popolazione come quella italiana che per generazioni ha inseguito (e raggiunto) l’obiettivo del posto fisso. Questa situazione, però, oggi non esiste più, a dimostrarlo è un tasso di disoccupazione che la recessione ha spinto a livellli da capogiro, soprattutto tra i giovani. Le imprese per ripartire, per tornare a produrre, per assumere e quindi per permettere alle famiglie di avere le risorse per rimettere in moto i consumi, hanno bisogno di flessibilità. Ecco perché la sensazione è che la riforma del lavoro, così come è stata impostata dal governo Monti, non centri tutti gli obiettivi prefissati. Di più - secondo alcuni politici, giuslavoristi ed economisti cui abbiamo dato voce in questo dossier - l’attuale impianto nasconde insidie interpretative, espone a un crescente rischio di contenziosi, finisce con il penalizzare la «buona flessibilità» sull’altare dei timori dei sindacati. Al punto che l’amministratore delegato di Gi Group, Stefano Colli Lanzi - la principale agenzia per il lavoro italiana - conclude che si sta sprecando un’occasione storica. La riforma sembra, quindi, avere necessità di correttivi diffusi: dalle regole per i contratti a termine a quelle delle partite Iva, dalla disciplina per i licenziamenti individuali alla proprità di rilanciare l’apprendistato come porta di accesso al lavoro, eliminando il vincolo di assunzione previsto tanto nella fase di avvio quanto a regime.

Un nodo, quello dell’apprendistato, molto sentito anche dalle piccole imprese artigiane, che concorrono a costituire il cuore produttivo del nostro Paese e l’icona del made in Italy nel mondo. Abbiamo quindi chiesto ad alcuni esperti quali siano gli interventi più urgenti da apportare. Ora la decisione è del Parlamento.

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