È morto ieri notte, stroncato da un infarto, Berardino Libonati, avvocato e professore romano, membro di molti consigli di amministrazione. Aveva 76 anni.
Berardino Libonati era più illustre che noto. Fino alla fine, infatti, il suo nome è rimasto vittima di un refuso ricorrente, Bernardino anziché Berardino, segno che anche nelle redazioni restava una conoscenza per iniziati. Era un professionista di statura elevatissima, avvocato, giurista, docente, con vaste conoscenze, ma l’assoluta riservatezza aveva impedito che la sua immagine s’inflazionasse. Nemmeno il re del gossip, Roberto D’Agostino, per anni suo vicino di casa, era riuscito a infrangere quella compostezza di stile. Alla Sapienza, l’università romana dove insegnava diritto commerciale, i suoi corsi erano tra i più ambiti anche se spesso gli impegni gli impedivano di tener lezione. Era sempre presente (e temuto), invece, agli esami. Dieci anni fa scoprì che un verbale portava due sue firme false, e da qui partirono delle indagini che permisero di accertare un giro di compravendite degli esami. In cinquant’anni (risale al 1962 la sua prima cattedra di diritto commerciale) con la sua attività legale ha praticamente attraversato la finanza italiana: dalla vicenda Enimont, alla guerra per il controllo della Mondadori (dove fu consulente di Carlo De Benedetti), alla presidenza della disastrata Telecom Italia prima dell’arrivo di Marco Tronchetti Provera. La grande cultura del diritto societario e l’esperienza nei patti di sindacato ha portato Libonati a essere uno dei consulenti più ascoltati, membro di un’infinità di consigli di amministrazione. É stato commissario della CariPrato, presidente della Banca di Roma e poi vicepresidente di Unicredit, consigliere della Acotel, di Nomisma, di Mediobanca, di Pirelli, di Rcs, presidente di Telecom Italia Media, sindaco dell’Eni dopo le inchieste di Mani pulite. Incarichi nell’universo pubblico e privato, quasi a sottolineare il distacco professionale dalle ideologie. Fu uomo di potere e legato al potere, ma senza legami di bassa politica, con un aplomb da vecchio liberale che gli veniva dal padre, Francesco Libonati, anch’egli avvocato, per anni direttore del Banco di Napoli. Quando fu chiamato a presiedere l’Alitalia, nel 2007, in uno dei momenti più cupi e delicati della storia della compagnia, dichiarò di accettare l’incarico affidatogli da Romano Prodi e Tommaso Padoa Schioppa per «spirito di servizio », e si vantò in più occasioni di averlo fatto gratis, o quasi. Del resto, quando si fece il suo nome per la presidenza di Mediobanca, le cronache registrarono una delle sue poche battute rivolte ai giornalisti: «A fare il presidente ci rimetterei una grande quantità di soldi », vista la ricchissima attività professionale che gli assicurava sempre posizioni di rilievo nelle classifiche dei redditi. Per un uomo dal curriculum così blasonato, proprio Alitalia fu un inutile smacco. Nessun infortunio, sia ben chiaro: ma il compito che gli era stato affidato - traghettare la compagnia dalla proprietà pubblica a quella privata, garantendo trasparenza e correttezza di procedure e comportamenti -andò in fumo. La sua presidenza durò lo spazio di un mattino, tra il bando per la privatizzazione e l’insuccesso della gara. Nominato in febbraio, si dimise in luglio; l’anno era il 2007 e l’agonia della compagnia pubblica, lasciata da Giancarlo Cimoli con un milione di perditeal giorno, doveva continuare ancora a lungo prima di trovare una soluzione attraverso la procedura fallimentare. Furono mesi di fuoco anche quelli passati alla testa di Telecom proprio nel momento dell’Opa che decretò l’arrivo di Roberto Colaninno. Nell’ultima assemblea, giugno 1999, si definì «un laico in un mondo di manager ». Concetti che ripeteva anche in occasioni accademiche: «Il problema è di passare dalla cultura del controllo formale dell’atto, che è sempre o quasi lecito, al controllo delle azioni del manager».
Il sorriso gli ricomparve quando il tribunale di Ascoli archiviò le accuse di usura che gli erano state rivolte. L’idea di passare per uno che ai tempi della presidenza di Banca di Roma applicava tassi oltremisura lo infastidiva terribilmente.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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