Ma rivalutare Allende è sbagliato

In Cile il presidente della Camera Fausto Bertinotti ha reso un doveroso e commosso omaggio alla memoria di Salvador Allende, «profeta disarmato», promotore di un «riformismo forte e democratico». Dall’esperienza di Allende, tragicamente conclusa, si potrebbe secondo il subcomandante Fausto trarre un insegnamento: «Se si hanno buone idee si può anche essere sconfitti oggi, ma domani si vince». Questa è retorica rituale. Bertinotti avrebbe in realtà dovuto macerarsi in altre e penose considerazioni mentre si chinava sulla tomba del presidente cileno. Una vulgata storica comoda e largamente falsa vuole che l’esperimento di Unidad popular sia fallito esclusivamente per le manovre Usa, per l’ostilità della reazione in agguato, per le trame dei militari, per l’insensibilità dei ceti abbienti. Non è che questi fattori siano mancati nella catastrofe cilena. Ma la sua prima causa va ricercata sia nella volontà del governo allendista di procedere a una rivoluzione sociale quando era in minoranza nel Parlamento e nel Paese, sia nell’estremismo delirante di forze di sinistra, minori ma indispensabili, che lo sostenevano.
Chi non ha visto cos’era il Cile alla vigilia del colpo di Stato difficilmente riesce a immaginarlo. Non esisteva più neppure l’ombra di strutture civiche ed economiche funzionanti, davanti ai negozi di alimentari si allungavano code di centinaia di metri, la gente si muoveva su camion adibiti a trasporto pubblico perché gli autobus erano tutti fuori uso, l’iperinflazione galoppava. Allende, personaggio che di suo era lontano da mattane, ma che non riusciva a resistere alle tentazioni della demagogia e alle esibizioni guerrigliere - Fidel Castro gli aveva regalato la mitraglietta con cui si uccise - divenne ostaggio di scalmanati e tracotanti utopisti. Alle cui follie si sforzava di porre freno anche il partito comunista, non perché riprovasse la lotta di classe ma perché capiva che i confusionari del Mir (il movimento della sinistra - izquierda - rivoluzionaria) stavano portando il governo e il Cile alla rovina.
Il golpe era nell’aria (ma non lo si prevedeva così feroce e cruento) perché non esisteva altro sbocco. Furono i Bertinotti di Unidad popular gli affossatori della democrazia cilena. Trent’anni dopo l’avvento dei generali nel 1973, Maurizio Chierici sull’Unità riferiva d’un colloquio con il socialista Carlos Altamirano, che in Unidad popular aveva il ruolo svolto nell’attuale maggioranza da Rifondazione comunista e dai comunisti italiani. Predicava cioè la fuga in avanti, ripeteva che «el pueblo unido jamás será vencido», irrideva gli esitanti. A Chierici un Altamirano pentito espresse la sua deprecazione per le insensatezze deleterie del 1973. «Altamirano aveva imposto la nazionalizzazione immediata di miniere e banche, l’espropriazione dei latifondi, aveva minacciato di distribuire armi a minatori e portuali se la melina allungava i tempi».
Per fortuna da allora tante cose sono cambiate nel mondo, in Cile, in Italia e gli eterni fantasticatori del comunismo da propinarci riveduto e corretto non possono, nemmeno loro, pronosticare l’avvento del potere di operai e contadini, anche perché operai e contadini sono adesso una minoranza. Ma ce n’è, nel loro serbatoio ideologico, quanto basta per glorificare Fidel Castro e il populista invasato Chavez, e per voler risolvere ogni problema italiano (e trovare i soldi per pensioni e per elargizioni future) con la formula magica: far pagare le tasse agli evasori. È una parola.
Nell’intrattenersi con la signora presidente Michelle Bachelet Bertinotti avrebbe potuto chiederle, avendone l’opportunità, come mai il Cile è in Sudamerica un esempio di finanza pubblica sana e virtuosa. La signora Bachelet gli avrebbe risposto che questo è stato ottenuto con una cura economica - quella della giunta militare - spietata soprattutto in danno della povera gente: ma che almeno il risanamento l’ha conseguito. I regimi comunisti - sia detto con buona pace di chi il comunismo vuole resuscitarlo - hanno egualmente, anzi maggiormente penalizzato il popolo, ma retrocedendo i loro Paesi all’infima retroguardia dello sviluppo.
I viaggi ufficiali piacciono molto alle Alte Autorità (e anche alle meno alte). È tutto - senza distinzioni di partito e di schieramento - un intrecciarsi di trasferte reciprocate, di omaggi contraccambiati, di allocuzioni riverberate. Purtroppo questo avviene a spese del contribuente, che ne farebbe volentieri a meno. Si capisce che alcuni viaggi sono indispensabili o comunque utili. Quelli del Capo dello Stato hanno un valore simbolico. Quelli del Presidente del Consiglio e dei ministri sottintendono almeno in teoria accordi, negoziati, firme di atti importanti.

Ma all’estero i presidenti del Parlamento italiano non hanno di che discutere se non del tempo, e per questi svaghi costosi - tali per il contribuente, beninteso - debbono trascurare i compiti per i quali sono stati eletti. Restino nelle loro sontuose residenze romane, gliene saremo grati.

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