Avendo avuto l’onore di essere incluso nella lista nera dei nemici del regime libico con una nota ufficiale dell’«Ufficio popolare della Grande Jamahirya Araba Libica Popolare Socialista» a Roma il 6 marzo del 2006, sarò il primo a rallegrarmi per la fine della tirannia di Gheddafi. Tuttavia mi domando se il sedicente «Consiglio nazionale di transizione» corrisponda effettivamente all’alternativa democratica garante dei valori inalienabili alla vita, alla dignità e alla libertà, oppure se sarà semplicemente una versione più edulcorata di un sistema di governo sostanzialmente autoritario condiviso dai partiti di opposizione, in primis gli integralisti islamici, in cambio della spartizione del potere?
Mi chiedo inoltre se gli Stati Uniti e l’Unione europea, che anche in questa circostanza dimostrano di essere succubi di un’ideologia di stampo sessantottino che s’infervora per i moti di piazza e le rivoluzioni attribuendo loro automaticamente e acriticamente una valenza democratica, siano veramente interessati all’emancipazione dei popoli arabi ed islamici nel senso dell’adesione piena e convinta ai diritti fondamentali della persona, o mirino essenzialmente a una qualsivoglia forma di stabilità politica appiattita sulla dimensione della sicurezza interna e il controllo delle frontiere, pur di aver garantiti con chiunque andrà al potere gli interessi materiali?
Se sull’imperativo di contrastare il genocidio perpetrato da Gheddafi contro il suo popolo siamo tutti d’accordo, siamo però certi che l’aiuto militare ai ribelli libici, l’eventuale imposizione della «zona di interdizione aerea», del «blocco navale» o dei «bombardamenti mirati» si tradurranno nell’avvento della democrazia? Ci siamo chiesti da dove siano spuntati all’improvviso armi e miliziani in tutta la Libia che stanno di fatto ingaggiando una vera e propria guerra militare sfidando gli aerei e i carri armati di Gheddafi? Non è forse opportuno vincolare sin d’ora il nostro contributo al rovesciamento della dittatura all’impegno pubblico del «Consiglio nazionale di transizione» a dar vita ad uno Stato laico fondato sulla separazione dei poteri che escluda sul nascere la prospettiva della teocrazia islamica, che aderisca ad una concezione sostanziale della democrazia che fa propria la Carta dell’Onu per i diritti della persona, che rispetti le risoluzioni e i trattati internazionali compreso il riconoscimento del diritto di Israele all’esistenza?
Se guardiamo a quanto sta accadendo in Tunisia e in Egitto, i due Paesi dove la rivolta popolare è riuscita ad allontanare i presidenti Ben Ali e Mubarak, di fatto sostanzialmente non è cambiato nulla perché il potere resta saldamente nelle mani delle forze di sicurezza e dell’esercito, impegnati a coinvolgere i partiti dell’opposizione nell’amministrazione dello Stato, concedendo un ruolo più significativo agli integralisti islamici di Ennahda e dei Fratelli Musulmani. In Egitto il vero paradosso è che i promotori della rivolta popolare hanno gioito per il colpo di stato militare considerandolo l’avvio del processo democratico nonostante Mubarak governasse a nome delle Forze armate. Di fatto da 7mila anni il potere è fortemente centralizzato per la necessità vitale di controllare la gestione dell’acqua del Nilo da cui dipende la vita degli egiziani. «Un dono del Nilo», lo definì Erodoto nel IV secolo avanti Cristo, e da allora nulla è sostanzialmente cambiato nella successione al potere di autocrati anche se formalmente non si chiamano più faraoni.
In questo braccio di ferro tra l’istituzione che incarna un potere sostanzialmente laico e l’alternativa teocratica islamica, l’Occidente deve fare una scelta. Se ci limiteremo a impedire un cambiamento reale, finiremmo per ritrovarci a breve con la riesplosione dei moti della piazza. Se rincorreremo acriticamente le suggestioni dei burattinai che istigano le folle, finiremmo per consegnare loro il monopolio del potere trasformando le elezioni in una passerella che favorirà i nemici della democrazia.
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