La rivoluzione è rosa: più donne in azienda fanno bene al business

Quote rosa? Superate: nel manuale firmato da Avivah Wittenberg-Cox la chiave di volta per gli affari è il «gender balance» sul posto di lavoro. In Italia le signore sono appena il 5,6% dei top management team. Ma anche da noi qualcosa sta cambiando...

C'è solo un fenomeno, a livello d'impatto sull'economia globale, che può essere paragonato al sorpasso da parte della Cina rampante alla superpotenza degli Stati Uniti (previsto da molti economisti entro il 2030): e cioè l'aumento delle donne alle scrivanie delle imprese e la loro ascesa, quantitativa e qualitativa, nel mondo del lavoro. Insomma, «quella "rosa" è la più grande rivoluzione in atto nel nostro tempo. Il processo è inarrestabile e irreversibile», sostiene con passione Avivah Wittenberg-Cox, Ceo della società di consulenza 20-first e autrice del saggio «How women mean business» (edizioni Wiley), presentato la scorsa settimana a Milano in una tavola rotonda a cui hanno partecipato diversi rappresentanti del mercato pubblico e privato italiano.
Il concetto chiave è «gender balance», ovvero l'insieme delle politiche d'impresa promosse nell'ottica di equilibrare la copresenza di uomini e donne. Ma sempre con l'obiettivo primario di fare business. Perciò siamo ben al di là dell'ingessato, e molto molto nostrano, dibattito sulle quote rosa. La Wittenberg-Cox è sicura: «È provato da numerosi studi che un maggior equilibrio di genere nelle aziende a tutti i livelli, ma soprattutto ai vertici, porta a risultati migliori. Oggi, purtroppo, le donne costituiscono un immenso serbatoio di talento non sempre adeguatamente valorizzato. Tuttavia qualche passo in avanti è stato fatto, anche in Italia».
I segni del cambio di rotta, sostiene l'esperta - che ha già pubblicato il fortunato «Rivoluzione Womenomics» - sono attorno a noi, a patire da fatti concreti: il calo della fertilità per la prima volta interessa Paesi ricchi e poveri allo stesso modo; le ragazze laureate sono di più dei colleghi maschi praticamente ovunque; e soprattutto, altro indizio da tenere nella giusta considerazione, negli Usa almeno tre posti di lavoro su quattro persi durante l'ultima recessione erano appannaggio degli uomini, principalmente nel settore manufatturiero. Al contrario, una percentuale molto simile di posti di lavoro creati nell'Unione europea negli ultimi dieci anni sono finiti nelle mani delle donne, specie nei servizi.
In realtà la questione non è tanto l'ingresso nel mercato del lavoro in sé, semmai il percorso che segue. La sostanziale parità iniziale si scontra con ciò che avviene nell'arco della carriera professionale, dal momento che - sebbene vi siano differenze sensibili da nazione e nazione - sono ancora rari i casi di donne ai posti di comando delle imprese.
Un'indagine appena condotta da 20-first con l'università «La Sapienza» di Roma sulle dieci maggiori società italiane (Eni, Assicurazioni Generali, Unicredit Group, Enel, Fiat, Intesa Sanpaolo, Telecom Italia, Poste Italiane, Finmeccanica, Premafin Finanziaria) selezionate in base all'indice Fortune Global 500, restituisce numeri impietosi. Solo quattro di queste hanno almeno una donna nel top management, la maggioranza quindi non ne ha nemmeno una. I top management team censiti, composti da un totale di 90 persone, annoverano oggi soltanto cinque donne (pari a un misero 5,6 per cento). Il confronto con quanto accade all'estero è tutt'altro che incoraggiante. Nell'indagine globale Womenomics 101 era emerso che l'89% delle società statunitensi aveva almeno una donna all'interno del top management; in Europa solo il 32% e il 18% in quelle asiatiche. Restando nei nostri confini, a livello di opportunità per le donne, l'Italia è stata classificata dal World Economic Forum al novantaseiesimo posto al mondo. La scalata non può più attendere.
E qui entrano in gioco le strategie a sostegno dell'impiego femminile e della maternità (orari flessibili, part-time orizzontale-verticale-estivo, telelavoro, modelli di work at home; inoltre asili e servizi di prossimità, ad esempio lavanderie e calzolai, direttamente nella sede di lavoro). Tutte pratiche che necessitano sì di incentivi dall'alto a livello governativo, ma non si può certo ignorare come certe iniziative debbano pur sempre partire dal basso, dalle scelte quotidiane delle imprese.
I leader delle aziende che hanno preso parte al forum di mercoledì 9 giugno (Gruppo Sanpellegrino, Microsoft Italia e Accenture) su questo convengono: per il gender balance in Italia bisogna fare di più e meglio. Gli uomini, forse con un pizzico di malcelata invidia nei confronti del «gentil sesso» - si fa per dire!-, ammettono: «Le donne hanno una marcia in più. Hanno personalità, sanno organizzarsi su fronti multipli per gestire gli impegni, non temono il cambiamento, e poi cosa nient'affatto trascurabile per chi fa profitto, hanno la capacità di influenzare gli acquisti di tutta la famiglia». Occorre passare dalle parole ai fatti. E nelle realtà coinvolte lo si sta facendo da tempo.
Messaggio chiaro alle trentenni e quarantenni del terzo millennio, divise tra palmare e pannolini: è ora di far valere i propri diritti, di saper volgere le situazioni a proprio favore.

Vietato ripetere l'errore delle madri: sbagliato scegliere tra carriera e figli. Per una donna manager il pancione, o una famiglia che t'aspetta a casa, non è (più) un problema. E non deve esserlo nemmeno per i suoi colleghi in cravatta.

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