Lorenzo Arruga
da Pesaro
Ma sapete che c'è un Duca cattivo che vuole conquistare a forza una ragazza che pure ama, riamata, suo marito? E c'è un custode del castello del Duca che alla fine lo tradisce e sta dalla parte di lei, trascinando una piccola rivolta popolare? Ma sapete che nel 1815 una storia così portava dritto dritto dalle pièces shakespeariane al romanticismo? E c'era uno, il più grande dei compositori del momento, che ne aveva paura, e non voleva aprire il tempo nuovo, mentre tutto nella sua musica, nella sua contraddetta fantasia, ve lo trascinava. Si chiamava Gioachino Rossini, e qualche volta val la pena di frugare, pur con discrezione, nel suo animo, perché da ogni incertezza fa uscire, consapevole o no, meraviglie assolute di grandezza.
Scrisse dunque in questa occasione Torvaldo e Dorliska. Il librettista Sterbini, lo stesso del Barbiere di Siviglia che sarebbe nato poche settimane dopo, fu incaricato di infiltrare nella vicenda deliziose parti buffe, non tanto per ragioni di varietà, quanto piuttosto come anestesia, come rifugio. Perché la storia del genere «semiserio» nel teatro d'opera da un lato è quella dell'opera buffa che ha paura di perdere il lieto fine, dall'altra quella dei musicisti avvezzi a consolare con l'incantesimo del canto, che hanno paura di arrendersi alla verità morale che la musica è ormai chiamata ad affrontare.
Rossini dunque scrive per la piazza di Roma una favolona sconnessa ma resa coerente dalla natura che lo porta a creare mondi meravigliosi, arie e pezzi d'assieme infallibili, così che controvoglia arriva alle soglie della grande opera romantica, e ne detta il nuovo linguaggio, a modo suo, con emozioni vere che si offrono però sùbito in lui a una contemplazione quasi fuori dal tempo scenico. Ed il primo a servirsene in futuro fu lui stesso, che lasciò tanta meraviglia al suo incerto destino e vi piluccò ad oltranza per le opere successive.
Ma sapete che c'è un festival in Italia che alla sua ventisettesima edizione riesce ancora a creare avvenimenti straordinari? Il regista Mario Martone ha creduto fino in fondo alla verità teatrale di quest'opera, e ci ha messi davanti a un meraviglioso, cangiante, misterioso, realistico bosco che però sembra contenere cento movimenti di scultura d'avanguardia e resta un pezzo di natura, firmato da Sergio Tramonti, separato o monito da noi da un cancello come ne incontriamo in campagna e nei sogni, facendo diventare spazio utile un largo palcoscenico, una passerella e all'occorrenza la platea. In questo luogo e non luogo tutti hanno impersonato con bravura stupefacente quella condizione di essere nei personaggi e uscirne senza staccarsene che è propria del teatro drammatico e comico, qui vissuti come una cosa sola. La fantasia, che fa succedere sempre qualcosa senza ricorrere a trovate in registese, ha fatto il resto: un capolavoro.
E abbiamo ammirato la precisa identità vocale e personale dei cantanti, già ben indicata dai sobri costumi di Ursula Patzak: la sofferenza intensa, fisica e librata negli acuti di Darina Takova, la verve consueta del buffo Bruno Praticò; la bellezza vocale e l'intelligente simpatia di Simone Alberghini, che in un'aria dà la caccia alle pere arrampicato su un albero, e quel momento potrebbe essere un spot promozionale per il teatro d'opera; la nitidezza del canto di Jeannette Fisher. Ma perbacco con un «legato» scuro nella voce e quattro gesti precisi Michele Pertusi sa disegnare un cattivo tormentato impressionante.
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